Anche in Iraq la guerra è iniziata nel cuore della notte. In quella compresa tra il 19 e il 20 marzo 2003 gli inviati a Baghdad, poco prima dell’alba, hanno segnalato il rumore delle prime esplosioni subito dopo l’attivazione degli allarmi aerei. Negli Stati Uniti mancavano poche ore a mezzanotte e le televisioni hanno improvvisamente interrotto le trasmissioni per trasmettere il discorso del presidente George W. Bush. Dallo studio ovale della Casa Bianca, Bush ha annunciato l’avvio delle operazioni contro l’Iraq di Saddam Hussein. Quest’ultimo parlerà poco dopo: in uno studio con lo sfondo blu, il rais ha denunciato l’aggressione Usa e ha chiamato a raccolta tutti gli iracheni.

É stato quello il momento spartiacque della storia recente del Medio Oriente. Una fase arrivata al culmine di tensioni iniziate pochi mesi prima, con la denuncia di Washington di possibili piani di Saddam per la costruzione di armi di distruzione di massa. La storia dirà che di quelle armi per la verità non c’è mai stata traccia. Ma il 20 marzo 2003 la macchina bellica si è messa in moto. Il 9 aprile le truppe Usa saranno già a Baghdad, ponendo fine a 24 anni di regno di Saddam Hussein e del suo partito Baath. Da allora, sono passati esattamente 20 anni. Due decadi scivolate via velocemente. Non tanto però da non far risultare attuali le conseguenze degli eventi di quei drammatici giorni.

L’anniversario della guerra visto dall’occidente

John Harris sul Guardian nei giorni scorsi ha riportato come, alla vigilia del ventesimo anniversario, della guerra del 2003 in occidente sono rimaste ben poche tracce. Un’opinione espressa in primo luogo anche da diversi editorialisti del Financial Times. I motivi possono essere diversi. A partire dal fatto che quel conflitto non ha mai avuto molta popolarità. Se nel 1991, anno del primo braccio di ferro tra Washington e Saddam, c’era di mezzo la necessità di ridare sovranità al Kuwait, nel 2003 in pochi hanno capito i reali motivi della guerra. Il mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa ha contribuito a rendere poco comprensibile le operazioni belliche contro Baghdad. E quindi, di riflesso, a far scivolare il conflitto nei meandri periferici della memoria.

La guerra poi non è rimasta costantemente nelle prime pagine nemmeno durante i combattimenti. Il 20 marzo 2003 i telegiornali hanno trasmesso a più riprese le prime immagini dei bombardamenti Usa, ma a fine mese si parlava già d’altro. I riflettori sono stati puntati sulla Cina, lì dove stavano emergendo drammatiche notizie sull’epidemia di Sars. E poi sul Canada, Paese nordamericano più colpito dal virus. In occidente, in poche parole, in quei giorni si temeva maggiormente il primo coronavirus nocivo per l’uomo che non le conseguenze di un conflitto mai realmente compreso.

Le tracce più significative, a 20 anni di distanza, sono quelle legate al dopoguerra. In Gran Bretagna ad esempio, l’azione contro Saddam è rimasta come macchia indelebile dell’operato di Tony Blair, premier e principale fautore insieme a Bush dell’avventura militare del 2003. In Italia si ricordano i soldati morti nelle operazioni di peacekeeping e i rapimenti fatali per alcuni nostri concittadini. Ma della guerra in sé, a distanza di due decadi, i ricordi appaiono molto sbiaditi e lontani.

Un Harrier GR7 britannico in una base in Kuwait 21 marzo 2003 (Foto: ANSA POOL / RUSSELL BOYCE DEF)

Come in Iraq si ricorda il conflitto

Dove ovviamente il conflitto ha lasciato molte tracce e molte ferite è ovviamente in Iraq. Anche se quanto accaduto venti anni fa è ricordato sotto diverse sfaccettature, a seconda della generazione o della regione a cui si appartiene. I giovani non hanno vivi ricordi. Circostanza quest’ultima da non sottovalutare: a vent’anni dal conflitto, c’è una parte di Iraq che non ha vissuto l’era di Saddam e che è nata in un’epoca del Paese postuma a quella del rais. Per loro forse la guerra è ancora più lontana e la mente è più proiettata alle attuali difficoltà da affrontare nella vita quotidiana.

A Baghdad invece gli adulti ricordano molto bene il conflitto. Nel giorno dell’anniversario, il pensiero di molte famiglie è rivolto alla corsa per l’accaparramento degli alimenti fatta a poche ore dai bombardamenti, alla paura suscitata dagli allarmi aerei, ai timori di ritrovarsi in una città nel pieno dei combattimenti. Ricordi di sofferenza quindi, a cui si aggiungono quelli relativi a un dopoguerra costellato di attentati, ribellioni e instabilità. La capitale irachena non sembra rimpiangere il rais, ma non appare nemmeno così convinta di aver imboccato la giusta strada dopo la guerra del 2003. Le ferite di allora sono ancora aperte, in diverse zone i danni causati dal conflitto non sono ancora stati riparati. La Baghdad “in pace” di oggi non è così diversa da quella in guerra di venti anni fa.

Diverso il contesto invece nel sud dell’Iraq. Qui vive la maggioranza sciita della popolazione, la quale ha sempre visto nel sunnita Saddam Hussein un nemico. Da Najaf a Bassora, il ricordo della guerra passa anche dal ricordo delle aspettative di quei giorni. Aspettative spesso disattese, ma vissute all’epoca in modo più forte rispetto a Baghdad. Un po’ come avvenuto nel Kurdistan iracheno. Venti anni fa la guerra è durata poco in una regione dove i peshmerga hanno subito approfittato dell’arrivo degli Usa per sbarazzarsi delle forze di Saddam. Per i curdi il conflitto ha significato la possibilità di avere una regione autonoma tutta loro. Anche qui però molte speranze sono state disattese e oggi la crisi economica è tornata a mordere e a innescare nuove tensioni con il governo centrale.

A Mosul invece il ricordo della guerra del 2003 è destinato ad andare in secondo piano. Qui i ricordi più vivi riguardano un altro conflitto, ben più duro e più recente. Quello cioè combattuto contro l’Isis. Il passaggio del califfato da queste parti, tra il 2014 e il 2017, ha lasciato cicatrici ancora più profonde e a oggi ben lontane dall’essere anche minimamente rimarginate.

Truppe americane e britanniche nei pressi della città di Uum Qasr (fonte: ANSA)

Che fine hanno fatto i gerarchi di Saddam

Con l’arrivo degli statunitensi a Baghdad, non è stata decretata soltanto la fine del lungo regno personale di Saddam Hussein. Gli Usa hanno proceduto alla liquidazione dello Stato iracheno precedente. Un vero e proprio processo di “de baathizzazione“, come chiamato in seguito con riferimento alla caccia data a tutti i rappresentanti principali del partito del rais. Con il senno del poi, probabilmente una scelta non molto saggia da parte di Washington. Molti ex fedelissimi di Saddam, dopo la guerra hanno alimentato la guerriglia islamista. Nonostante una profonda differenza ideologica tra il laico Baath e i gruppi jihadisti, nella ribellione sunnita ex membri del partito hanno visto la possibilità di una resa dei conti contro le forze Usa.

Lo dimostrano le parole dell’unico importante gerarca del rais mai catturato dai militari statunitensi, Izzat Ibrahim al-Douri. Vice di Saddam, nel 2016 ha parlato di “eroi” riferendosi ai combattenti dell’Isis in quel momento dilaganti nel nord dell’Iraq. Al Douri è morto in latitanza nel 2020. Tutti gli altri membri di spicco del Baath sono stati catturati poco dopo il conflitto. A partire da Barzan Ibrahim Al Tikriti, fratellastro del rais ed ex capo dei servizi di sicurezza. Preso nell’aprile 2003, Barzan è stato condannato a morte nel 2007. Sorte toccata anche ad Ali Hassan Al Majid, soprannominato “Alì il chimico” per il bombardamento contro il villaggio curdo di Halabja negli anni ’80.

Catturato nel 2003 anche il volto forse più popolare in occidente della gerarchia di Saddam, ossia l’ex ministro degli Esteri Tareq Aziz. Rappresentante cristiano nel governo di Baghdad, Aziz è stato l’esponente principale della diplomazia del Baath ed è morto in un carcere di Nassiriya nel 2015. Sarebbe ancora vivo invece Muhammad Saeed al-Sahhaf. Secondo gli Usa non era tra gli elementi di spicco del regime iracheno, ma era ministro dell’Informazione durante la guerra. Il suo volto è diventato popolare per le conferenze stampa convocate a Baghdad in cui sosteneva, a poche ore dalla deposizione di Saddam, la non presenza di americani in città. Per questo motivo è stato poi soprannominato “Alì il Comico”. Incarcerato per breve tempo, oggi vivrebbe negli Emirati Arabi Uniti.

Cosa resta della famiglia Hussein

Il destino del rais è ben noto ai più. Saddam Hussein è stato arrestato nella sua Tikrit, a nord di Baghdad, nel dicembre del 2003 e condannato a morte tre anni più tardi. I suoi figli, Uday e Qusay, sono stati uccisi il 22 luglio durante il blitz nel loro ultimo covo individuato a Mosul. La prima moglie del rais, Sajida Talfah, è andata via da Baghdad già prima della guerra e oggi vivrebbe in Qatar. La coppia ha avuto anche tre figlie: Raghad, Rana e Hala.

Particolarmente significativa è la posizione di Raghad. Moglie di Hussein Kamel Al Majid, ex fedelissimo di Saddam ucciso nel 1996 dopo aver disertato in Giordania, negli ultimi anni avrebbe avuto anche ruoli di primo piano nella diaspora del Baath. In particolare, nel 2007 è stata accusata di aver pagato l’insurrezione irachena assieme alla madre. Per questo è stato emanato un mandato di cattura, ma oggi vive con i suoi cinque figli e le altre due sorelle ad Amman. Nel marzo del 2021, è apparsa per la prima volta in tv intervistata da Al Arabiya. In quell’occasione, non ha nascosto l’intenzione di tornare in futuro in Iraq e concorrere per incarichi politici.

La situazione nell’Iraq di oggi

Al di là delle vicende dei protagonisti di venti anni fa, la guerra del 2003 oggi ha lasciato nella società irachena non poche ferite. Lo hanno dimostrato le guerre civili successive e le varie insurrezioni jihadiste. Anche se sul fronte della sicurezza negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti, la stabilità a Baghdad rimane una chimera. Il quadro politico è frammentato e frazionato in diversi rivoli settari, circostanza che rende molto problematica la ricostruzione delle zone distrutte dai conflitti e l’attuazione di riforme in grado di far ripartire un’economia al collasso. Una fetta molto ampia della popolazione vive in povertà e non sembrano esserci sbocchi positivi all’orizzonte.

C’è poi la questione della sovranità. Anche se le operazioni Usa sono terminate nel 2011, nel Paese rimangono i militari statunitensi così come sono presenti anche i miliziani filo iraniani inviati negli anni della guerra all’Isis. Emblematico in tal senso quanto accaduto il 3 gennaio 2020, giorno in cui droni Usa hanno colpito e ucciso il generale iraniano Qassem Soleimaini a pochi passi dall’aeroporto di Baghdad.

A venti anni dalla guerra, l’Iraq è ancora in cerca di stabilità, normalità e identità. Le eredità di quel conflitto hanno quindi le sembianze di drammi attuali non ancora superati e ben lontani dal trovare una soluzione.

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