Sono 75mila i casi confermati nel Continente africano, ma sarebbe utopistico credere che a questi numeri si limiti la diffusione della pandemia di coronavirus nel continente, considerando i pochissimi tamponi effettuati e le gravi condizioni in cui versano i sistemi sanitari. Dopo il Sudafrica (il Paese più colpito, ma anche quello dove le rilevazioni sono state più capillari) e nazioni limitrofe, il grosso dei contagi è stato riscontrato nella regione dell’Africa occidentale. Un luogo dove il Covid-19 si aggiunge ad una lunghissima serie di problematiche che rischia di peggiorare ulteriormente i fragili equilibri dell’area, già alle prese con il Jihad islamico e con una tremenda carestia che ha affamato le fasce più deboli – e più numerose – della popolazione. E contro questa “Triplice alleanza” le misure che i Paesi colpiti possono mettere in campo rischiano di non essere sufficienti, perdendo molto del terreno recuperato con la fatica ed il sudore della fronte negli ultimi anni.
Sistemi sanitari al collasso e nuovi contagi in aumento
Sebbene come sottolineato – almeno stando ai dati ufficiali – i numeri siano sostanzialmente contenuti, la paura e le stringenti normative messe in campo per arginare la diffusione del Covid-19 hanno danneggiato il sostrato economico africano. Tutto ciò mentre il debole sistema sanitario ha già iniziato a dare i segni di cedimento, come accaduto nel piccolo Paese della Guinea-Bissau: primo Stato africano a dichiarare ufficialmente il collasso delle proprie strutture mediche a causa degli affollamenti causati dalla pandemia.
Nella stessa situazione rischiano però di giungere anche tutti i Paesi dell’Africa occidentale, tra i quali anche il colosso della Nigeria, con la regione di Kano – vessata anche dal terrorismo – che sta iniziando a dare i primi segni di cedimento. E con l’economia del Paese atterrata a causa del lockdown imposto nelle metropoli di Lagos ed Abuja, la sensazione è che la Nigeria stia per essere messa con le spalle al muro.
Dal lago Ciad alle rive dell’Atlantico: uno scenario raccapricciante
Dalle incursioni contro i civili di Boko Haram agli attentati a bordo di motociclette contro le caserme dei soldati del Mali, il 2020 dello Jihad africano era già iniziato con una forte impennata, che all’ultimo G5 Sahel aveva costretto la Francia ad aumentare i propri sforzi nella regione e chiedere aiuto ai propri partner europei: come l’Italia nell’operazione Takuba. Il tutto, mentre nel Sahel stanno imperversando una serie di criticità climatiche che per la prima volta hanno unito i quattro paesi bagnati dal Lago Ciad (Ciad, Niger, Nigeria e Camerun) nella battaglia congiunta contro la fame e la carestia. Ma col peggioramento della situazione e per via delle complicazioni scaturite dalla pandemia di coronavirus, una battaglia sotto questi fronti appare un limite insormontabile non soltanto per i fragili Paesi africani ma anche per gli attori internazionali impegnati nella regione.
Con le misure di lockdown imposte anche nel Continente nero, il blocco del lavoro e le difficoltà negli approvvigionamenti alimentari laddove l’agricoltura di sussistenza non è sufficiente ha contribuito ad alimentare la fame nella popolazione. Soprattutto nei bambini, che con le scuole chiuse si sono visti “privati” dell’unico pasto caldo garantito al quale in molti casi hanno accesso; e con le famiglie atterrate, le stesse possibilità di sopravvivenza sono state duramente ridimensionate. E in questo scenario, la capacità di reclutamento delle compagini jihadiste rischiano di aumentare notevolmente, facendo presa su una popolazione debole quanto mai prima e assoggettata spesso a semplici necessità di sostentamento.
Dove non arriva lo Stato, arriva la criminalità
“Laddove non arriva lo Stato, arriva la Mafia”: questa frase o sue varianti sono state spesso utilizzate per spiegare le criticità nella lotta alla criminalità organizzata nel nostro Paese. Ma se si sostituisce al termine “Mafia” il termine “Jihad”, ci si renderà rapidamente conto di come questa massima sia valida anche in un Sahel alle prese con una sfida per la sopravvivenza ancora più ardua rispetto a quella affrontata nel passato.
Non è complicato dunque in questa chiave leggere un parallelismo con l’aumento degli attacchi dell’ultimo periodo e con una difficoltà maggiore nell’eradicare soprattutto dalle società rurali la piaga dell’estremismo islamico. Una situazione che, purtroppo, rischia di gettare le basi per un nuovo aumento dei conflitti che si ripercuoterà anche negli anni a venire, sin tanto che le condizioni non verranno quanto meno stabilizzate da un punto di vista economico e sociale.
Il Jihad è una via di fuga dalla fame
Accettare di unirsi alle compagini islamiste spesso diventa una scelta obbligata per una moltitudine di soggetti della regione: padri di famiglia senza lavoro che devono dare sostentamento alla propria famiglia, orfani privi dei mezzi di sussistenza e chi semplicemente vuole aumentare il proprio tenore di vita. Tutte persone fragili, che una volta entrate all’interno delle milizie vengono estremizzate e accrescono la forza dei gruppi jihadisti. E quando la situazione media peggiora, ecco che anche i numeri di questo fenomeno improvvisamente accrescono, gettando le basi per un nuovo incremento anche delle scie di terrore: situazione questa che si sta verificando proprio in questi mesi nella regione del Sahel.
Il vero problema, però, è insito nella grande marcia indietro che viene prodotta nei confronti di quelle piccole ma importanti conquiste portate avanti negli ultimi anni, tra vittorie sul campo e tra strumenti sociali dati in mano alla popolazione per combattere l’ideologia islamista. E mentre per portare a casa una piccola conquista sono necessari molto spesso anni di lavoro, per perdere terreno nelle difficoltà bastano poche settimane: il tempo necessario affinché le persone non abbiamo più nulla da perde. E tra morte, terrore, fame e paura, i tempi non sono mai stati così tanto stringenti come in questo momento.