La pandemia da Sars Cov 2 è stata proclamata ufficialmente dall’Oms il 10 marzo del 2020. Essa è stata generata dalla diffusione di un nuovo virus della famiglia dei coronavirus, scoperto in Cina nel dicembre del 2019. L’agente patogeno è il terzo coronavirus rivelatosi letale per l’uomo: il primo, il Sars Cov, è stato scoperto sempre in Cina nel novembre del 2002 e presenta una forte somiglianza con quello comparso 17 anni dopo. L’altro coronavirus letale, il Mers, è invece stato scoperto nel 2013 nella penisola arabica ma è rimasto circoscritto all’area mediorientale, non presentando correlazioni con il nuovo virus. La pandemia è durata esattamente tre anni. Il 5 maggio 2023 l’Oms ha decretato la fine dell’emergenza. Al momento dell’annuncio della fine della pandemia, i morti causati dalla malattia generata dal virus, ossia il Covid-19, sono quasi sette milioni in tutto il mondo.
Le prime notizie ufficiali relative al Sars Cov 2 si hanno il 31 dicembre 2019. Quel giorno le autorità del governo cinese informano infatti l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) della presenza a Wuhan, metropoli capoluogo della provincia di Hubei, di alcuni casi di polmonite atipica. Nella nota, i funzionari di Pechino specificano che esiste il forte sospetto dell’esistenza di un focolaio infettivo diffusosi tra alcuni clienti del mercato umido del distretto di Jianghan, nel centro di Wuhan.
Ma nella metropoli cinese è già da almeno un mese che si discute della possibile presenza di un’epidemia. Il primo dicembre un paziente, ricoverato a Wuhan, accusa pesanti sintomi di crisi respiratoria. L’uomo, di 55 anni, secondo una diagnosi pubblicata nel gennaio 2020 dal South China Morning Post, risulta essersi infettato il 17 novembre. È questa la data a cui viene fatto risalire il primo caso ufficiale di Sars Cov 2 in un uomo. Ma è difficile credere che per davvero quel paziente abbia subito suo malgrado il primo passaggio da animale a uomo del virus. Altre indagini successive, accertano infatti che il cinquantacinquenne non ha alcun contatto con pazienti contagiati nell’area del primo focolaio, quello del mercato di Jianghan. Dunque è lecito pensare che l’agente patogeno circoli nella metropoli da diverse settimane.
La tesi viene sostenuta anche da diversi studi apparsi nei mesi successivi. Si puntano i riflettori, in particolare, su alcuni malesseri sospetti avvertiti dagli atleti che partecipano alla settima edizione dei Giochi Militari Mondiali. Un’olimpiade dedicata agli sportivi appartenenti alle forze armate di tutto il mondo, disputata proprio a Wuhan tra 18 e il 27 ottobre 2019. Quei malesseri vengono denunciati nelle settimane successive. Alla comparsa delle prime notizie su un possibile focolaio in Cina di un nuovo virus, c’è chi si ricorda di aver avuto dei sintomi non indifferenti durante o poco dopo il soggiorno a Wuhan. Al momento è impossibile dimostrare una correlazione tra questi malesseri e l’epidemia. Solo indagini più approfondite un futuro diranno forse la verità. Per adesso, il capolinea storico della pandemia si ferma a quel 17 novembre 2019, la data del primo contagio ufficialmente annotato.
Tornando invece al mese di dicembre, dopo il ricovero del primo paziente infettato le autorità sanitarie di Wuhan intuiscono che qualcosa non quadra. Nei vari ospedali della città iniziano ad arrivare notizie di altri pazienti ricoverati con sintomi di infezione all’apparato respiratorio. Il 12 dicembre, l’emittente statale cinese Cctv parla per la prima volta di un “focolaio virale” rilevato a Wuhan. C’è quindi la certezza che nella metropoli stia circolando un importante virus infettivo. Forse in quel momento la preoccupazione nella popolazione cinese è legata a un ritorno del Sars Cov. L’epidemia cioè, partita dalla provincia del Guandong, che tra il 2002 e il 2003 mette il Paese in ginocchio e genera molta paura. Occorre però indagare per capire realmente la situazione. I medici a Wuhan non escludono la presenza di un nuovo coronavirus. Si indaga, seppur in silenzio: poche notizie vengono comunicate all’esterno degli ospedali, niente invece viene detto all’estero.
C’è un primo timore, ci sono prime possibili indiscrezioni, ma nulla di certo. Intanto, il 15 dicembre 2019, i casi di infezione accertati salgono a 27. I numeri iniziano a diventare importanti e di un certo rilievo. Lo sa bene anche Ai Fen, direttrice del pronto soccorso dell’ospedale centrale di Wuhan. Anche lei, come altri medici, è al corrente del focolaio ed è consapevole dei primi dettagli emersi dalle indagini e cioè che molti pazienti sono frequentatori abituali del mercato umido di Jianghan. Sul finire del mese di dicembre, Ai Fen ha tra le mani un rapporto proveniente da un laboratorio che ha esaminato il quadro clinico di uno dei pazienti contagiati. In quel rapporto c’è qualcosa che la preoccupa: il paziente in questione non riesce a guarire con le cure convenzionali, l’agente patogeno non scompare con i metodi fino ad allora conosciuti. Sempre nello stesso documento, si parla esplicitamente di Sars. Ai Fen cerchia la parola Sars, scatta una foto al rapporto e la invia a un suo collega di un altro ospedale di Wuhan. Quest’ultimo la diffonde tra i vari circoli medici della città.
Il documento cade sotto l’attenzione di un giovane oculista che lavora nello stesso ospedale di Ai Fen: si chiama Li Wenliang. È lui, con un messaggio girato sul social WeChat alle 17:43 del 30 dicembre, a diffondere il rapporto e a far uscire le indiscrezioni sulla presenza della Sars al di fuori dell’ambito ospedaliero. Alle 18:42 dello stesso giorno, inserisce un altro messaggio: qui si fa riferimento esplicitamente alla presenza del coronavirus. I messaggi vengono notati dalla Polizia. Il 3 gennaio Li viene convocato e invitato a scrivere un messaggio di scuse per evitare di essere arrestato: per lui l’accusa sarebbe stata quella di diffusione di false notizie, considerata molto grave in Cina. L’oculista contrarrà in ospedale il virus e il 14 gennaio sarà costretto al ricovero: morirà il 7 febbraio per alcune complicazioni. In quel momento il suo nome è molto noto in Cina e all’estero: in patria viene considerato dalle autorità il responsabile di un eccessivo allarmismo, fuori invece viene visto come il primo medico a rendersi conto della gravità della situazione. La sua morte fa rumore. Pechino apre un’inchiesta e oggi il suo nome è riabilitato e inserito nella lista dei martiri, una delle onorificenze più importanti conferite dal Partito Comunista Cinese.
Sono le sue dichiarazioni comunque a costringere le autorità locali a correre ai ripari e a comunicare all’estero la presenza di un virus. Si arriva così al 31 dicembre: quel giorno i contagi sono già più di 300 nella sola Wuhan e il governo cinese, come detto, comunica all’Oms la diffusione di un focolaio.
La prima decisione amministrativa volta a contrastare il coronavirus si ha il primo gennaio 2020. Quel giorno le autorità di Wuhan decidono di chiudere il mercato umido da cui è partito il cluster. È un ulteriore segnale che qualcosa sta accadendo. Le indagini mediche nel frattempo vanno avanti. Il 7 gennaio arriva una prima importante svolta: Pechino comunica che l’epidemia riscontrata a Wuhan è generata da un coronavirus molto simile al Sars Cov, ma diverso. Si è cioè in presenza di un nuovo virus, fino ad allora sconosciuto. Viene assegnato un provvisorio nome di riconoscimento: 2019-nCov. Più tardi, il 12 febbraio, il virus sarà ufficialmente riconosciuto come Sars Cov 2 e la malattia da esso generata come Covid 19.
L’infezione corre e i contagi a Wuhan aumentano. Il 23 gennaio arriva la prima decisione drastica: il governo di Pechino impone la quarantena a tutti gli undici milioni di abitanti della metropoli. Il termine quarantena, ben presto lascerà spazio a livello internazionale a un’altra parola: lockdown. Tutto chiuso: Wuhan diventa improvvisamente una città deserta, con gli abitanti costretti a casa e riforniti a domicilio di cibo e medicinali. Pochi giorni dopo, la stessa decisione viene presa per l’intera provincia di Hubei.
I casi aumentano e ciò che desta maggior sconforto è la patologia riscontrata: molti pazienti hanno danni permanenti ai polmoni e sono costretti a invadenti cure mediche, spesso nei reparti di terapia intensiva. Colpisce il repentino aumento dei casi durante il mese di gennaio: gli ospedali di Wuhan e della regione circostante vanno al collasso, il governo decide di costruire 16 nuovi nosocomi entro poche settimane e richiama nella metropoli migliaia di medici da tutto il Paese. Nel resto della Cina si annullano i festeggiamenti per il capodanno cinese e le altre manifestazioni. C’è poi un altro dato importante: il 24 gennaio, durante una riunione di emergenza all’Oms, viene riconosciuto ufficialmente che il Sars Cov 2 si trasmette da uomo a uomo. Il termine pandemia inizia a farsi strada tra gli scienziati.
Mentre il virus corre a Wuhan e in Cina, primi casi si registrano anche all’estero. Al 24 gennaio 2020, sono ufficialmente registrati 830 casi in nove Paesi. Tra questi anche Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Thailandia, Taiwan e Stati Uniti. Chiaro quindi che l’allarme è adesso internazionale. Il 30 gennaio si registrano anche i primi due casi italiani: si tratta di una coppia cinese in vacanza nel Bel Paese e costretta al ricovero allo Spallanzani di Roma. Non si hanno, fino a quel momento, altri casi nella penisola.
Il 28 gennaio il segretario dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, vola a Pechino per incontrare il presidente cinese Xi Jinping. I due condividono informazioni sulla situazione in Cina e il numero uno dell’Oms non parla di allarme generale. Circostanza questa ritenuta, nei mesi successivi, quantomeno controversa. Due giorni più tardi, l’Oms si riunisce nuovamente: i delegati e gli scienziati accertano la presenza di 83 casi in 18 Paesi fuori dalla Cina. Numeri che impongono una scelta ben precisa: la dichiarazione dello stato di emergenza. Una fase di preallerta, anticamera della pandemia.
Che l’emergenza oramai non riguardi solo la Cina è confermato il 3 febbraio. Le autorità giapponesi intimano a Gennaro Arma, comandante della nave da crociera Diamond Princess, di attraccare nel porto di Yokohama. Questo perché un uomo di 80 anni, sbarcato il giorno prima a Hong Kong, è risultato positivo al nuovo coronavirus. Il timore, poi rivelatosi fondato, è che a bordo fosse presente un focolaio. Nei giorni successivi, il focolaio sulla Diamond Princess diventa il più importante al di fuori della Cina. Alla fine della quarantena, si conteranno a bordo sette decessi dovuti al virus.
Ben presto però saranno altre le situazioni internazionali ancora più preoccupanti. Il 20 febbraio in Corea del Sud si assiste a un drammatico improvviso balzo dei contagi. La situazione risulta particolarmente critica a Taegu. Qui il virus arriva tramite il cosiddetto “paziente 31”: si tratta di un fedele che ha partecipato a un raduno all’interno della Chiesa di Gesù Shincheonji. Un evento considerato detonatore dell’epidemia nel Paese. Le autorità sudcoreane impongono il lockdown a Taegu. Analoghe misure vengono ben presto prese a Seul e infine in tutto il territorio nazionale.
L’altro Paese asiatico piegato dall’epidemia è l’Iran. I primi due casi vengono registrati il 19 febbraio. Entro il 24 febbraio, i contagi scoperti sono nell’ordine delle decine. Per diverse settimane, l’epidemia rischia di sfuggire al controllo. Entro fine mese sono quindi tre i Paesi cerchiati in rosso dall’Oms: Cina, Corea del Sud e Iran. Più altri 30 in cui viene registrato almeno un caso.
Tra la seconda metà di febbraio e gli inizi di marzo, a Wuhan la situazione inizia a migliorare. Si registra un rallentamento nella velocità dei contagi e l’epidemia, seppur ancora molto diffusa, appare più sotto controllo. L’attenzione però inizia a spostarsi altrove. La notte del 21 febbraio l’Italia si sveglia con la notizia della scoperta di un paziente positivo al test Sars Cov 2. Non è il primo, ma questa volta non ha alcun legame con i cluster cinesi. Si tratta quindi di un caso “autoctono”, segno della presenza del virus lungo la penisola. Il paziente si chiama Mattia Maestri, ha 38 anni ed è ricoverato all’interno dell’ospedale di Codogno, in provincia di Lodi. I sintomi registrati al pronto soccorso portano al sospetto di un’infezione da Covid 19, pur non avendo avuto il paziente contatti con la Cina. Circostanza quest’ultima che, secondo i protocolli del ministero della Salute in vigore in quel momento, non comportano l’effettuazione del test. Il tampone viene però fatto ugualmente ed è così che si scopre la positività.
Iniziano a essere avviate indagini e, nel giro di poche ore, vengono scoperti nuovi casi. Non solo tra i parenti di Mattia Maestri, ma anche tra gli abitanti dell’area di Codogno. Altri positivi vengono individuati nell’area di Vo Euganeo, in Veneto. Si tratta di un altro focolaio slegato dal primo. A fine giornata, proprio in Veneto si registra il primo decesso. Il coronavirus circola nell’area del nord. Mesi dopo si scoprirà, tramite approfondite indagini mediche, che il primo caso di contagio in Italia risale al 21 novembre 2019: si tratta di un bambino di Milano di 4 anni. È la conferma che il virus è presente nel Bel Paese già da diverso tempo. E questo rafforza la tesi di un’epidemia scoppiata ben prima del 17 novembre, data del primo caso cinese. L’ipotesi più accreditata è che una forma meno letale di Sars Cov 2 sia in circolazione in Asia almeno dall’estate del 2019.
Il 22 febbraio i casi accertati in Italia salgono a 70. Il governo, guidato dal presidente del consiglio Giuseppe Conte, istituisce le prime zone rosse: viene imposta la quarantena nell’area di Codogno e in quella di Vo Euganeo. Si tratta di provvedimenti senza precedenti in Europa nel secondo dopoguerra. In alcune province del nord si chiudono le scuole e si limita l’apertura di bar e ristoranti. I casi però aumentano e l’Italia cade nel panico. Si registrano picchi di contagio nelle province di Bergamo e Brescia. Altri casi sono registrati in Piemonte e nella provincia di Piacenza, così come in Veneto. Il 4 marzo il governo vara il primo Dpcm con misure per l’intero territorio nazionale: vengono chiuse le scuole e, tra le altre cose, si impone lo svolgimento di attività sportive e di spettacolo a porte chiuse. Il 7 marzo viene istituita una zona rossa valevole per tutto il nord Italia. Scatta il panico a Milano e in tutte le più grandi città settentrionali, con decine di persone che provano a raggiungere i parenti nel sud Italia, dove al momento la situazione è sotto controllo. Alla fine, il 9 marzo, il governo decide di estendere all’intero territorio nazionale le misure valevoli per le regioni del nord: scatta così il primo lockdown in Europa. Per quasi 60 giorni, gli ospedali di Bergamo, Brescia, Cremona, Padova, Piacenza e di altre città settentrionali sono sotto forte pressione. Il 18 marzo il numero di decessi nella bergamasca è così elevato da costringere l’esercito a trasferire le salme fuori provincia con le camionette. Quella data è oggi indicata in Italia come giornata del ricordo per le vittime del Covid.
La situazione in Italia preoccupa il resto d’Europa. Vengono prese misure per attuare controlli alle frontiere e sui viaggiatori in arrivo dagli aeroporti italiani. Ben presto però l’intero Vecchio Continente diventa epicentro dell’epidemia. Il 14 marzo la Spagna vara il lockdown, misure drastiche vengono prese anche in Francia. A fine mese, gran parte dei Paesi Ue (compresa la Germania) varano lockdown o misure volte a limitare la libertà di spostamento. L’unico governo a non prendere decisioni in tal senso è quello svedese. In Gran Bretagna, dopo un iniziale orientamento del governo di Boris Johnson a favore dell’immunità di gregge, il 23 marzo vengono varate prime importanti misure di contrasto.
Considerato che il virus Sars Cov 2 circola in tutti i continenti, causando gravi problemi ai sistemi ospedalieri e sanitari, l’Oms il 10 marzo 2020 si riunisce per dichiarare ufficialmente la pandemia. È la seconda volta che accade nel XXI secolo, la prima risale al 2009 per il virus H1N1. Ma se in quel caso poi gli allarmi sono stati presto ridimensionati, con il Covid preoccupa l’estrema contagiosità, amplificata dalla presenza di un gran numero di asintomatici. Inizia anche la corsa ai vaccini: in Europa, negli Usa, in Cina, in Russia e in altre aree del pianeta si lavora per mettere a disposizione i sieri per immunizzare la popolazione.
Oltre che in Europa, a marzo la pandemia mette timore negli Usa. L’amministrazione dell’allora presidente Trump non impone un lockdown nazionale, ma negli Stati dove corre maggiormente l’epidemia vengono varate misure locali. Il 19 marzo è la California il primo Stato a imporre misure di contenimento. Tra marzo e aprile, l’epicentro dell’epidemia oltreoceano è lo Stato di New York.
Preoccupa la situazione anche in Brasile, così come in India e in Iran. In Corea del Sud la politica dei test di massa inizia a dare i propri frutti, in Giappone l’epidemia è invece sotto controllo. In Cina ad aprile iniziano a essere rimosse le limitazioni, mentre a Wuhan si registrano solo pochi casi di contagio. Entro maggio, è comunque l’intero pianeta a fermarsi. Tra misure drastiche oppure più leggere, tutti i governi nei vari continenti sono costretti a fare i conti con il Covid. Si decide anche per il rinvio delle olimpiadi di Tokyo, previste ad agosto, e degli europei di calcio.
La situazione in Italia e in Europa migliora con l’avvicinarsi dell’estate. Nel Bel Paese a maggio viene tolto il primo lockdown. I casi diminuiscono, anche se il numero dei morti soprattutto in Lombardia appare elevato. Quella estiva è però solo una tregua. Nel Vecchio Continente e nei Paesi più colpiti dall’epidemia, con l’avvento dell’autunno si capisce che si deve nuovamente convivere con l’aumento dei contagi. Molti governi, tra cui quello italiano, provano a evitare lockdown generalizzati preferendo invece misure in ambito locale. La vita però risulta notevolmente cambiata. Nei ristoranti, così come nelle scuole, si attuano misure di distanziamento. Negli uffici si applica il più possibile la politica del cosiddetto “smart working”, per permettere alla gente di lavorare dove possibile da casa. In Cina si vara la politica del “contagio zero”, consistente nella chiusura di interi distretti e province non appena si scoprono anche pochi casi di positività.
L’intero 2020 è contrassegnato dal coronavirus. La gente in tutto il mondo cambia abitudini, i Paesi si attrezzano per scongiurare il collasso dei sistemi sanitari, molte frontiere si chiudono e diverse catene di produzione saltano o sono costrette a ridimensionare gli affari. Una situazione che crea problemi di ordine economico, sociale e comportamentale.
Il 2020 si conclude con una novità importante sul fronte del contrasto alla diffusione del virus. Il 27 dicembre infatti, in tutta Europa viene avviata la campagna di vaccinazione. Pochi giorni prima, le prime dosi vengono iniettate negli Stati Uniti. Nel Vecchio Continente e oltreoceano le rispettive agenzie preposte alla sicurezza dei farmaci, tra novembre e dicembre danno il proprio via libera per i primi vaccini sperimentati e prodotti. Circostanza che crea polemiche: il poco lasso di tempo dalle prime sperimentazioni alle prime somministrazioni, fa temere per la sicurezza delle dosi. Tuttavia gran parte della comunità scientifica internazionale rassicura sulla bontà e sul funzionamento dei vaccini. In Europa e negli Usa sono tre quelli più diffusi: Moderna, AstraZeneca e Pfizer, a cui pochi mesi dopo si aggiunge quello prodotto da Johnson&Johnson.
In altre aree del mondo invece vengono iniettati altri vaccini. È il caso dello Sputnik V prodotto in Russia oppure del Sinovac diffuso maggiormente in Cina. La questione diventa anche politica: si crea una vera e propria corsa, soprattutto tra le principali potenze, per la sperimentazione e commercializzazione di propri vaccini. Il siero vaccinale è quindi una questione anche di soft power, specialmente in una fase in cui l’intero pianeta è condizionato dalla pandemia di Sars Cov 2.
Gran parte della popolazione aderisce alla campagna e si creano code negli hub. Ma c’è anche chi sceglie di non vaccinarsi. Una divisione destinata, nei mesi successivi, a diventare una vera e propria contrapposizione ideologica. E questo per via delle politiche che via via vengono intraprese. In Italia ad esempio si ha l’introduzione del cosiddetto Green Pass, ossia un documento rilasciato solo a chi completa il ciclo di vaccinazione e che permette di entrare nei luoghi pubblici e nei locali. Per i detrattori del provvedimento, si tratta di un modo per rendere nei fatti obbligatorio il vaccino. Da qui una spaccatura sempre più evidente tra chi sceglie di farsi iniettare le dosi e chi preferisce un’altra strada. In alcuni casi si creano dei gruppi cosiddetti “No Vax” che chiedono al governo la cessazione di una simile campagna politica. Vale per l’Italia, ma anche per il resto d’Europa, per gli Stati Uniti e per altri Paesi quali ad esempio il Brasile. Qui il presidente allora in carica, Jair Bolsonaro, è tra i pochi leader che annuncia pubblicamente di non volersi vaccinare.
Ma all’inizio del 2021 non è soltanto il vaccino a contrassegnare gli studi sull’emergenza sanitaria. Il mondo ha alle spalle oramai il primo anno di pandemia, studiosi e accademici hanno potuto quindi analizzare in modo più approfondito le conoscenze del nuovo coronavirus. A destare attenzione è, in particolar modo, l’elevata trasmissibilità. Un elemento che risulta molto più elevato rispetto al Sars Cov del 2002 e al Mers e che è tra le cause della repentina diffusione in tutto il mondo. La letalità è piuttosto bassa, ma meno mortale è un coronavairus più esso risulta contagioso. Un’arma di difesa è quindi data dallo studio delle sequenze virali.
In Gran Bretagna vengono analizzati migliaia di campioni di Sars Cov 2 ogni giorno. Non è un caso che proprio da qui parte la segnalazione, nel novembre 2020, di una prima importante variante del virus. Si tratta di una mutazione che rende il Sars Cov 2 ancora più contagioso, ma molto meno letale. La variante cosiddetta inglese, nel giro di pochi mesi, diventa quella predominante tanto nel Regno Unito quanto in Europa.
Ad aprile invece, si assiste a un drammatico aumento dei contagi in un Paese fino a quel momento parzialmente risparmiato dalla pandemia: l’India. Qui i casi aumentano giorno dopo giorno, il sistema sanitario va al collasso e servono continue scorte di ossigeno per garantire le cure a chi si trova in terapia intensiva. Artefice di questa situazione è un’altra variante, denominata Delta. Segno di come il virus muta costantemente e velocemente. Quest’ultima variante è ancora più contagiosa e ben presto dilaga in tutto il pianeta. Sul finire del 2021, in un mondo costretto ancora a limitazioni, uso delle mascherine e misure di contenimento, il Sars Cov 2 in circolazione non è più quello scoperto e sequenziato nel gennaio 2020 a Wuhan.
Nel frattempo in Europa quasi il 90% della popolazione risulta vaccinato. I sieri però hanno efficacia minore contro le varianti. Secondo una larga fetta della comunità scientifica, i vaccini sono ancora molto utili ma a prevenire non tanto i contagi quanto le ospedalizzazioni. Nuove ondate e nuovi picchi di contagio infatti raggiungono il Vecchio Continente anche in piena estate e poi in autunno. Le limitazioni iniziano a essere minori per via di una maggiore sostenibilità del sistema ospedaliero, ma la vita prosegue sempre nel segno dell’emergenza.
Una nuova svolta si ha nel gennaio del 2022. In Sudafrica alcuni scienziati confermano la presenza di un’altra variante. Viene chiamata Omicron e la sua comparsa risale al novembre del 2021 nel Botswana. In un primo momento, la notizia crea apprensione soprattutto in Europa. In realtà ben presto ci si accorge che, al fianco di una ben più elevata contagiosità, la variante provoca molti meno effetti letali. La nuova mutazione del Sars Cov 2 diventa ben presto prevalente. Al fianco però di un più alto numero di contagiati, si assiste a una diminuzione delle persone ospedalizzate.
Non tutti all’interno della comunità scientifica sembrano d’accordo, ma una buona parte degli studiosi appaiono fiduciosi del fatto che con Omicron il Sars Cov 2 è in procinto di trasformarsi in una comune influenza. Tra virus e uomo, dopo due anni di guerra, forse si è trovato un equilibrio. L’agente patogeno non uccide più come in precedenza, garantendo a sé stesso la sopravvivenza.
Anche per questo motivo il 2022 è l’anno in cui la pandemia non desta la medesima preoccupazione del biennio precedente. In Italia ad esempio, a ottobre il neo insediato governo Meloni abolisce i bollettini giornalieri. In Gran Bretagna vengono tolte tutte le varie misure di contenimento, compreso l’uso della mascherina. Anche il Green Pass, nei Paesi in cui è stato previsto, diventa uno strumento in disuso già prima dell’estate. L’emergenza, in poche parole, gradatamente svanisce.
Rimane solo lì dove tutto è iniziato: in Cina infatti il governo continua a perseguire la politica del Covid zero. Bastano pochi contagi e anche una città come Shanghai è costretta a vivere ancora in lockdown. Ma questo suscita proteste e manifestazioni di insofferenza da parte della popolazione. Nel mese di novembre, anche Pechino toglie le strette. Aumentano i contagi ma la situazione negli ospedali rimane gestibile. È un ulteriore segno, a livello internazionale, della trasformazione della pandemia.
La vita nella seconda parte del 2022 riprende con le abitudini pre Covid. Lo stesso uso delle mascherine in un Paese come l’Italia, spaventato dall’epidemia anche a due anni di distanza dai primi casi, viene abbandonato. A livello mediatico, il coronavirus è meno dibattuto per via, tra le altre cose, dello scoppio della guerra in Ucraina nel febbraio del 2022. Il passaggio al 2023 è all’insegna della normalità.
C’è un dato che nel nostro Paese appare simbolico: il 17 marzo, a tre anni esatti dal picco dell’epidemia in Italia, per la prima volta dal 2020 in Lombardia non si registrano pazienti affetti da Covid 19 in terapia intensiva. Il Sars Cov 2 circola ancora, ma senza causare emergenze. È il preludio, a livello internazionale, per la dichiarazione molto attesa da parte dell’Oms: il 5 maggio 2023 la massima autorità sanitaria delle Nazioni Unite dichiara ufficialmente terminata la pandemia. Permane la vigilanza per eventuali nuove varianti.