Chi è Donald Trump

Donald John Trump, terzo figlio del tycoon dell’imprenditoria Fred Trump, è nato a New York il 14 giugno 1946 ed è stato il 45esimo presidente americano, in carica dal 2017 al 2021. Vittorioso contro Hillary Clinton alle presidenziali del 2016, sconfitto da Joe Biden alle combattutissime elezioni del 2020, nel novembre 2022 è tornato in campo puntando alla terza nomination per il Partito Repubblicano in vista del 2024.

Primo presidente eletto senza aver mai ricoperto cariche politiche o militari, primo presidente a superare due procedure di impeachment, ma anche primo presidente a non riconoscere, nel 2020, la vittoria del suo avversario alle urne e primo ex capo dello Stato, nel marzo 2023, a essere incriminato per reati penali Trump è stato uomo divisivo fin dalla sua discesa in campo. Tappa più intensa di una carriera che lo ha sempre visto giocare al centro della scena.

Cresciuto nella “Grande Mela”, rampollo di una famiglia divenuta tra le più influenti della città, Trump si è formato dapprima alla , da lui conclusa nel 1964, e in seguito alla Wharton School of Finance and Commerce dell’Università della Pennsylvania, ove ottenne una laurea in Scienze Economiche nel 1968.

Ancor prima di terminare gli studi, il giovane Trump iniziò un’attiva partecipazione agli affari della compagnia di famiglia, la Elizabeth Trump & Son, contribuendo in seguito ad avviare una progressiva espansione dell’impresa dopo averne assunto il controllo nel 1971.

Lo stile manageriale che avrebbe contraddistinto l’istrionico e deciso Trump sino ai giorni nostri iniziò a profilarsi nel momento in cui il giovane imprenditore decise di imprimere una svolta personale alla propria attività, rinominando l’impresa col nome di Trump Organization.

Donald Trup e Herschel Walker (LaPresse)
Donald Trup e Herschel Walker (LaPresse)

L’espansione dell’impresa di costruzioni di Trump avvenne principalmente attraverso lo sviluppo di importanti progetti edilizi nell’area di Manhattan che gli consentirono di concludere lauti contratti e di acquisire per la prima volta una notorietà significativa negli ambienti politici, economici e direzionali della città di New York. Tra il 1973 e il 1983, edifici come il Grand Hyatt Hotel, il Trump Plaza e la Trump Tower cambiarono lo skyline di New York; la grande abilità comunicativa di Trump, inoltre, contribuì a renderlo un personaggio altamente “mediatico”, dato che parallelamente alla dilatazione del suo patrimonio anche l’interesse per la sua vita personale da parte dei mezzi d’informazione iniziò a conoscere una repentina espansione mano a mano che Trump operava il suo inserimento nel jet-set statunitense, aiutato in questo obiettivo dalla prima moglie Ivana, con il quale fu sposato dal 1977 al 1991.

La lunga carriera imprenditoriale di Trump è stata nel corso dei decenni contraddistinta da un sostanziale filo conduttore: nello sviluppo del suo business, progressivamente diversificatosi dall’edilizia sino al settore dei casinò e del trasporto aereo, Trump ha sempre mirato ad associare fortemente le proprie attività al suo nome, mirando a personalizzare il loro sviluppo e operando strategie di personal branding fortemente all’avanguardia e difficilmente replicate dagli altri miliardari americani. Al netto di numerosi episodi contestati e di svariati incidenti di percorso (in ben quattro casi, imprese che facevano riferimento a Donald Trump hanno dovuto far appello alla giurisdizione fallimentare americana) in tal campo il gioco di Trump è sul lungo tempo riuscito: nel 2011, infatti, la rivista Forbes stimava per il brand “Trump” un valore superiore ai 200 milioni di dollari.

Uno dei casinò di Donald Trump (LaPresse)

L’indole mediatica e la tendenza alla spettacolarizzazione del proprio personaggio da sempre manifestata da Trump hanno avuto un seguito al di là del mondo degli affari a partire dagli Anni Novanta, quando programmi televisivi, film e reality show iniziarono a proporre a più riprese la figura del tycoon newyorkese. Particolarmente fortunata fu la parabola del reality show The Apprentice, nel quale i concorrenti disputavano tra di loro un posto in una delle imprese commerciali possedute da Trump, divenuto un successo planetario, e grazie al quale, secondo dati resi noti nel luglio 2015, il magnate avrebbe ricevuto dalla Nbc la bellezza di 213 milioni di dollari per 14 stagioni.

Donald J. Trump ha sempre avuto un vivace rapporto dialettico col mondo istituzionale americano e, nel corso della sua carriera nel mondo degli affari, ha più volte esternato le sue opinioni sui temi d’attualità, trovandosi in diversi casi vicino a un effettivo ingresso nel mondo politico: sostenitore di Ronald Reagan, al termine del secondo mandato di quest’ultimo prese in considerazione l’idea di entrare nella squadra del futuro successore repubblicano, George H. W. Bush; nel 1999, sulla scia della significativa esperienza del miliardario Ross Perot, progettò di imbastire una candidatura alle presidenziali del 2000 in rappresentanza del Reform Party, desistendo in seguito dal proposito.

Nel 2013, una serie di discorsi tenuti di fronte alla Conservative Political Action Conference (Cpac) sancì di fatto l’ingresso di Trump nel mondo della politica attiva, inaugurando il percorso che sarebbe culminato nell’annuncio della candidatura alla nomination repubblicana per la Casa Bianca. Essa fu annunciata il 16 giugno 2015, incontrando lo scetticismo generale dei vertici conservatori statunitensi, che ritenevano la mossa di Trump essenzialmente autopromozionale e, in ogni caso, destinata a non produrre effetti sul lungo termine.

Il resto è storia ben nota: dopo la campagna di elezioni primarie più incredibile degli ultimi decenni, Trump ha asfaltato tutti gli sfidanti in campo repubblicano sfruttandone le divisioni e le rivalità reciproche, servendosi abilmente delle proprie doti comunicative e costruendo nel corso dei mesi una piattaforma programmatica che ha raccolto un vasto consenso.

I 14 milioni di voti raccolti da Trump nel corso delle primarie del Grand Old Party hanno rappresentato un record per la formazione conservatrice, e costituiscono la piattaforma su cui il miliardario newyorkese ha voluto appoggiarsi al fine di portare a compimento anche l’impegnativa, decisiva campagna contro Hillary Clinton al fine di riconsegnare ai repubblicani la Casa Bianca dopo due mandati di amministrazione democratica.

Il 9 novembre 2016 Trump uscì trionfatore dalle elezioni presidenziali, superando Hillary Clinton grazie alla vittoria in 30 Stati contro i 20 dell’avversaria, che nonostante avesse ottenuto quasi tre milioni di voti in più dello sfidante su scala nazionale conquistò solo 227 voti elettorali contro i 304 dell’avversario.

Trump, appellandosi all’America profonda e ai “forgotten men” colpiti dalla deindustrializzazione, dalla globalizzazione e delle disuguaglianze economiche prevalse facendo breccia nella Rust Belt, il cuore ferito dell’industria americana, ovvero il territorio corrispondente agli Stati di Ohio, Michigan, Winsconsin e Pennsylvania. Assieme a Florida e Iowa questi furono gli Stati conquistati da Barack Obama nel 2012 che Trump seppe far passare ai repubblicani.

Insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017, Trump fin dall’inizio ha provato a imporre la sua svolta personale in materia di decisioni politiche, dovendosi però scontrare con la necessità di mediare tra gli apparati politici, militari e di sicurezza che costituiscono il capitale fisso della strategia statunitense. L’amministrazione Trump ha sempre dovuto gestire un instabile rapporto tra i vari sistemi di potere del Paese, il cui conflitto si è ripercosso a più riprese in un vortice di avvicendamenti nel governo. Dal gennaio 2017 Trump ha cambiato, tra gli altri, due segretari di Stato (Mike Pompeo al posto di Rex Tillerson), quattro consiglieri per la sicurezza nazionale (Michael Flynn, H. R. McMaster, John Bolton, Charles O’Brien), tre segretari alla Difesa (Jim Mattis, Patrick Shannahan, Mark Esper), tre capi del personale della Casa Bianca (Reince Preibus, John Kelly, Mick Mulvaney).

Il presidente Donald Trump mostra il titolo del Washington Post, giornale molto critico nei suoi confronti, sul risultato dell'impeachment (LaPresse)
Il presidente Donald Trump mostra il titolo del Washington Post, giornale molto critico nei suoi confronti, sul risultato dell’impeachment (LaPresse)

Un turnover a cui va aggiunto il coinvolgimento dell’amministrazione in due lunghi scontri istituzionali con l’opposizione democratica: sia il Russiagate che il processo di impeachment per il cosiddetto “Ucrainagate“, tuttavia, si sono conclusi senza conseguenze penali o istituzionali per Trump.

In materia di politica interna, il principale focus di Trump è stato sul contrasto all’immigrazione proveniente dai Paesi centroamericani. Trump in campagna elettorale ha più volte fatto riferimento alla volontà di dare carattere permanente al celebre “muro” al confine col Messico per il quale, tra 2018 e 2019, l’amministrazione è riuscita a trovare i fondi direttamente dal bilancio della sicurezza nazionale. A questo si sono aggiunti diversi provvedimenti per il controllo dell’immigrazione regolare da Paesi ritenuti potenzialmente a rischio per il problema terrorismo e un serrato braccio di ferro con le “città santuario” in rivolta contro i provvedimenti federali.

In materia di giustizia, Trump ha difeso il diritto al possesso delle armi, in maniera simile a quanto fatto a livello aggregato dal Partito Repubblicano, e il mantenimento della pena di morte. Dichiaratamente pro-life è invece la sua posizione in materia di aborto, al punto che nel gennaio 2020 l’ex tycoon newyorkese è divenuto il primo capo di Stato Usa in carica a partecipare alla March for Life.

Donald Trump è il primo presidente americano a partecipare alla Marcia per la vita (LaPresse)
Donald Trump è il primo presidente americano a partecipare alla Marcia per la vita (LaPresse)

Alla Corte Suprema Trump ha piazzato due colpi importanti nominando due giudici di chiaro orientamento conservatore, Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh, aprendo la strada a una “riconquista” repubblicana della massima istituzione giudiziaria statunitense.

In campo economico l’amministrazione Trump ha conseguito nei suoi primi tre anni di attività, fino allo scoppio della pandemia di Covid-19, una crescita economica vicina al 3% di media indicata dal presidente come obiettivo in campagna elettorale.

La principale riforma varata nel corso del mandato è stata quella in campo fiscale del 2017, che ha offerto alle società e ai gruppi finanziari un gigantesco sconto in materia tributaria e, combinandosi con le politiche espansive della Fed e il decollo delle borse, ha innalzato enormemente i redditi delle fasce più ricche della popolazione. Tanto che, come scrivevamo, “Forbes ha stilato la classifica dei 400 uomini più ricchi d’America, segnalando come nell’ultimo decennio questi abbiano conosciuto un incremento del proprio patrimonio di 2,3 volte, sfiorando complessivamente i 3mila miliardi di dollari (2.700 miliardi di euro)”.

Minori, invece, i risultati in materia di re-industrializzazione degli Stati Uniti, mentre nel primo mandato di Trump si è persa la proposta di un grande piano infrastrutturale che da molti analisti è ritenuto un fondamentale volano produttivo. Mentre Joe Biden ha poi rilanciato diversi piani sul re-shoring industriale, focalizzandoli su auto elettrica, semiconduttori e tecnologie green.

Sul fronte del commercio con l’estero, Trump ha più volte utilizzato le armi dei dazi e delle tariffe per indurre al negoziato Paesi in relazione concorrenziale con Washington sul fronte economico. Nell’emisfero occidentale Trump ha incassato da Messico e Canada il passaggio del Nafta all’accordo commerciale aggiornato Umsca; a livello mondiale, si è scontrato sui dazi con la Germania e soprattutto con la Cina. Proprio nell’era Trump il confronto economico tra Washington e Pechino si è fatto serrato e ha portato all’ascesa di una rivalità geopolitica destinata a plasmare sul lungo periodo le relazioni internazionali.

Il trumpismo ha vissuto la politica estera sulla scia di un apparente bipolarismo: il presidente Trump si è sempre posto in polemica aperta con le scelte dei suoi predecessori in materia di interventismo in conflitti stranieri e di sovra estensione politica ma, al tempo stesso, ha condotto un’agenda nazionalista e unilaterale che molto spesso ha portato gli Stati Uniti a atti di intervento diretto all’estero o al coinvolgimento in prima linea.

Sul fronte mediorientale Trump ha rilanciato l’asse con Israele e Arabia Saudita; ha individuato nell’Iran il rivale geopolitico numero uno e lavorato per dissolvere l’accordo sul nucleare firmato da Obama nel 2015; contrastando in prima linea Teheran gli Stati Uniti sono arrivati, il 3 gennaio 2020, all’inaudito atto di uccidere il capo dei Pasdaran Qassem Soleimani in uno strike compiuto da dei droni all’aeroporto di Baghdad. In materia di contrasto al terrorismo, l’amministrazione Trump ha contribuito allo smantellamento dell’Isis in Iraq e rivendicato nel 2019 l’uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi. Due raid condotti contro la Siria di Bashar al Assad nel 2017 e 2018 hanno dimostrato come anche sul dossier del conflitto civile nel Paese l’approccio di Trump sia stato maggiormente unilaterale di quello del predecessore.

Storico, invece, il compromesso raggiunto nel 2020 con la conclusione degli Accordi di Abramo che hanno consentito a Israele di aprire alla normalizzazione dei rapporti e al mutuo riconoscimento con due potenze arabe, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, annunciato l’11 settembre 2020 e premessa di ulteriori rilanci della diplomazia di Tel Aviv nei confronti di Marocco, Sudan e Arabia Saudita. Una svolta fortemente voluta da Trump per consolidare il contenimento anti-iraniano.

In America Latina Trump ha sostenuto apertamente le amministrazioni liberali (come quella argentina di Mauricio Macri) o liberiste (come quella del populista brasiliano Jair Bolsonaro) schierandosi nettamente contro i tradizionali avversari di Washington, i partiti socialisti e sovranisti desiderosi di promuovere un’agenda anti-statunitense. Forte la pressione esercitata su Cuba, nei cui confronti è stata annunciata la ripresa delle sanzioni e dell’embargo dopo la distensione dell’era Obama, e durissima la contrapposizione con il Venezuela chavistanei cui confronti Washington ha, senza successo, promosso fin dal 2019 la candidatura di Juan Guaidò come presidente in opposizione a Nicolas Maduro.

Tra Russia ed Europa, Trump si è inizialmente mosso cercando il sostegno diplomatico di Vladimir Putin per arrivare al ricongiungimento politico con Mosca. Sul lungo periodo le logiche della rivalità strategica con la Russia sono prevalse, e Trump ha rafforzato il contenimento strategico nell’Est Europa. La relazione con diversi alleati europei è stata valorizzata in ambito Nato e diversi Paesi, come la Polonia nazional-conservatrice, l’Italia del governo Conte I e la Grecia di Kyriakos Mitsotakis, hanno rafforzato il loro afflato atlantista proprio per solidarietà con la figura presidenziale di Trump.

Diverso l’approccio di Trump verso l’Unione europea, ritenuta organizzazione complessa e potenzialmente d’intralcio alla leadership europea nel Vecchio Continente. Da qui il sostegno americano alla Brexit tra il 2017 e il 2020.

La grande rivale degli Usa è e rimarrà, come detto, la Cina. Nonostante i tentativi di Trump di costruire un rapporto cordiale con Xi Jinping, la “battaglia dei giganti” tra Pechino e Washington si è via via intensificata. Sfida commerciale, lotta tecnologica per il 5G e le infrastrutture digitali, sfida d’influenza in Africa e in America Latina, confronto militare indiretto nel Pacifico: le molteplici forme di rivalità testimoniano come quella tra Pechino e Washington sia una sfida destinata a durare a lungo. Tanto che sul dossier cinese si è registrata la maggiore convergenza d’opinioni sia tra gli apparati politici americani che tra essi e la Casa Bianca. Tutti convinti che Pechino sia il rivale numero uno e che la sua ascesa politica ed economica, concretizzata dalla Nuova via della seta, vada fermata con le sanzioni, i dazi, l’infiltrazione politica a Hong Kong e nello Xinjiang, la massima pressione militare nell’Oceano Pacifico, le alleanze (Giappone, India, Australia).

Il 15 gennaio del 2020 il presidente americano Donald Trump e il vicepremier cinese Liu He siglano la pace commerciale, avviando la fase uno dell'accordo sul commercio tra Pechino e Washington (LaPresse)
Il 15 gennaio del 2020 il presidente americano Donald Trump e il vicepremier cinese Liu He siglano la pace commerciale, avviando la fase uno dell’accordo sul commercio tra Pechino e Washington (LaPresse)

Lo storico Graham Allison ha avvertito dei pericoli di uno scontro a tutto campo e ammonito del possibile scatto della “trappola di Tucidide” nel suo saggio Destinati alla guerra: Pechino e Washington tengono aperto il dialogo e a inizio 2020 sono arrivati a una tregua sui dazi che fa ben sperare ma non esaurisce la loro rivalità. Tanto che anche il successore Joe Biden non ha mancato di comportarsi in linea con Trump indicando nella Cina il principale rivale strategico. Perché i presidenti passano, l’America e i suoi interessi restano.

La presidenza Trump pareva avviata, nonostante contrasti e divisioni politiche, verso una potenziale riconferma alle elezioni 2020, trainata dai buoni dati sull’economia e dall’assenza di crisi insanabili nel contesto internazionale, ma a intralciare la marcia del presidente ci ha pensato lo scoppio della pandemia di Covid-19.

Il Covid ha bussato alla porta degli Usa tra marzo e aprile 2020 e ha mietuto fin dall’inizio numerose vittime: i quartieri più poveri delle metropoli e gli Stati dell’America profonda sono andati in sofferenza di fronte all’avanzata del contagio, e Trump ha promosso nei confronti del contagio una risposta ambivalente. Da un lato, Trump ha adottato un approccio riduzionista rifiutando di imporre misure di contenimento di valenza nazionale e ha accarezzato anche diverse teorie non confermate sulla cura del Covid; dall’altro, la sua amministrazione ha con l’operazione Warp Speed messo in campo fin dall’inizio oltre 10 miliardi di dollari per accelerare la corsa al vaccino anti-Covid.

Sul piano economico, Trump e il Congresso in accordo bipartisan hanno sbloccato 2mila miliardi di dollari di aiuti economici per contrastare povertà, disoccupazione e inefficienze sanitarie, aiutare le imprese in difficoltà, promuovere investimenti e tamponare gli effetti più duri della crisi. La cifra è risultata di molto superiore ai 700 miliardi di dollari, stanziati da George W. Bush per salvare le banche dalla crisi finanziaria nel 2008, e agli oltre 800 miliardi di Barack Obama, per contrastare la Grande Recessione nel 2009. In tutto questo, non bisogna neppure trascurare che Trump, per potenziare la produzione di materiale sanitario, abbia ripreso ampiamente una legge nata per favorire la produzione bellica, il Defense Production Act del 1950 varato ai tempi della guerra di Corea.

A giugno 2020 la questione sanitaria si è sommata alla questione sociale con lo scoppio delle proteste degli afroamericani dopo l’assassinio a Minneapolis di George Floyd ad opera di un agente della polizia municipale. Trump è stato attaccato dai democratici e dal candidato Joe Biden come un presidente divisivo e incapace di dare una risposta politica pienamente soddisfacente.

Le elezioni del 3 novembre 2020, in quest’ottica, sono state tra le più divisive della storia americana. Trump ha incrementato i suoi consensi rispetto al 2016, ma Biden ha raccolto 81 milioni di voti, conquistato 25 Stati e sfondato quota 300 grandi elettori, riportando in mano democratica Stati chiave come quelli della Rust Belt e conquistando la presidenza. Trump ha provato a denunciare brogli, minacciato azioni legali contro l’ampio ricorso dei democratici al voto per posta e accusato l’esistenza di un complotto ai suoi danni. Queste teorie, sostenute dalla frangia più radicale dei trumpiani e dai movimenti legati a QAnon, non hanno trovato conferme concrete, ma sono state alla base dell’assalto dei sostenitori più radicali del presidente uscente al Campidoglio di Washington, avvenuto il 6 gennaio 2021.

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L’azione è stata ritenuta una delle cesure più drammatiche della storia della democrazia americana e ha accelerato la transizione di potere nelle mani di Biden, formalizzata due settimane dopo. Trump è divenuto in quest’ottica il capo dell’opposizione in un Grand Old Party plasmato a sua immagine e somiglianza: basterà per dare l’assalto alla Casa Bianca nel 2024? Per una figura divisiva e complessa come Trump le possibilità di riscossa appaiono complesse, ma in passato il tycoon repubblicano non ha mai mancato di riservare sorprese. E il suo ritorno in campo lo ha confermato.

Dopo la sconfitta del novembre 2020 e la tempestosa uscita dalla Casa Bianca The Donald è stato dato da molti per finito. Tuttavia, sulla scia della difficoltà di Joe Biden di implementare un’agenda politica a tutto campo per i risicati numeri della maggioranza democratica al Congresso e della crisi di identità del Partito Repubblicano Trump nel 2021 ha avuto modo di reinserirsi.

In primo luogo, Trump è passato da corpo estraneo dentro al suo stesso partito a leader difficilmente scalfibile della maggioranza dei Conservatori.

In secondo luogo, negli anni l’impatto delle sue politiche ha iniziato a produrre frutti in senso favorevole al Grand Old Party anche in un contesto di opposizione: la decisione con cui la Corte Suprema orientata a destra dalle nomine di Trump ha abolito la sentenza Roe vs Wade che garantiva il diritto federale all’aborto, nel giugno 2022, ne è un esempio.

Infine, Trump è riuscito a giovarsi delle difficoltà strutturali dell’agenda Biden di fronte alla tempesta dell’inflazione crescente, della crisi energetica e delle tensioni internazionali aperte dalla guerra tra Russia e Ucraina.

Nel 2022 Trump ha presentato gli anni della sua presidenza come favorevoli e prosperi, contro una presidenza Biden ritenuta inefficace e piegata alle agende radicali, ambientaliste e unamerican della Sinistra dem. Paragone al limite, a cui ha aggiunto spesso la mitologia della rigged election, ma efficace in termini di consenso. Trump ha inoltre lanciato il suo social network personale, Truth, come cassa di risonanza per le sue politiche.

Nell’agosto 2022 Trump ha infiammato la conferenza più importante dei Conservatori, il Cpac, annunciando di voler promuovere candidati a lui vicini per le elezioni di Mid Term, lanciando la sfida ai Democratici con vista 2024 e colpendo l’opposizione interna al Partito Repubblicano che aveva promosso una commissione di inchiesta sui fatti di Capitol Hill.

Nello stesso mese l’Fbi ha fatto incursione nella sua villa in Florida, a Mar-a-Lago, sequestrando alcuni documenti: per i suoi oppositori Trump avrebbe conservato da privato cittadino documenti classificati della Cia dei tempi della presidenza; The Donald accusa complotti e ritorsioni. L’America torna a polarizzarsi attorno al presidente più controverso degli ultimi decenni. E quello delle divisioni nette è, in un certo senso, l’ambiente in cui Trump si trova più a suo agio. In un contesto in cui, però, è l’intera America a essere sempre più polarizzata.

Un primo dato si è avuto alle elezioni di Midterm dell’8 novembre 2022, in cui i Democratici hanno mobilitato contro The Donald una buona fetta dei votanti centristi. I Repubblicani hanno, nella prima prova nazionale di Trump come “capo” dell’opposizione riconquistato di stretta misura la Camera dei Rappresentanti, ma sono rimasti sotto al Senato e per Biden l’elezione è stata sostanzialmente un pareggio, mentre Trump ha visto l’ascesa in casa repubblicana del governatore della Florida Ron DeSantisproiettato a figura nazionale dalla netta riconferma in uno Stato tradizionalmente in bilico. Come ha riportato un sondaggio Nbc, “a livello nazionale, il 32% degli elettori nel 2022 ha dichiarato che il loro voto era per opporsi a Joe Biden“. Ma “il 28% ha detto che il loro voto era per opporsi a Donald Trump”, anche se Trump non detiene alcun incarico. Ciò suggerisce che “il continuo dominio di Trump sul Grand Old Party ha reso le elezioni del 2022, nella mente degli elettori, un referendum quasi tanto su un ex presidente sconfitto quanto sull’attuale presidente e partito al potere”.

Un caso, questo, senza precedenti che non ha impedito a Trump di rilanciare la sua candidatura alla Casa Bianca una settimana dopo, il 15 novembre, in un evento a Mar-a-Lago in cui ha dichiarato la sua intenzione di tornare a “fare grande l’America”. Una sfida lanciata in anticipo rispetto al 2024, che rappresenta l’ennesima corsa di un uomo ambizioso e perennemente in gioco contro sé stesso e gli avversari. Ora chiamato a gestire una polarizzazione che si potrebbe, negli anni a venire, ritorcere contro le sue stesse ambizioni.

A tagliare la strada di Trump verso il ritorno è stato però, nel frattempo, l’emergere di numerosi guai giudiziari. Nella seconda metà di marzo 2023 è cominciata a farsi strada sui media Usa la prospettiva di un’incriminazione di Trump per la presunta corruzione della pornostar Stormy Daniels volta a fermare le voci di una relazione clandestina durante la campagna elettorale del 2016. Trump avrebbe inviato un pacco di contanti a Daniels in cambio del suo silenzio, registrando come spese legali per la campagna la spesa. Come spiegato su queste colonne, “per la legge di New York”, Stato ove The Donald era residente, “mascherare simili pagamenti nei registri aziendali è un reato, ma in genere si tratta soltanto di un reato minore (misdemeanor). Diventa un crimine (felony) se i falsi documenti aziendali hanno lo scopo di oscurare un secondo reato”.

Il 31 marzo 2023, infine, il gran giurì di New York ha votato per incriminare Donald Trump che è diventato il primo ex presidente degli Stati Uniti a dover affrontare procedimenti penali e ad avere dei carichi giudiziari pendenti. L’iniziativa è giunta dal procuratore distrettuale democratico Alvin Braggcontro cui il tycoon si è scagliato definendolo corrotto e non equo, oltre che potenzialmente vicino, per quanto il fatto appaia un esagerazione, al suo rivale George Soros, finanziere vicino ai Democratici.

Il 4 aprile 2023 Trump si è presentato a Manhattan per la procedura di registrazione e la formalizzazione della messa in stato d’accusa, con conseguente arresto, dopo aver chiamato i suoi sostenitori alla resistenza contro un presunto complotto giudiziario. I 34 capi d’accusa che Trump si è trovato affrontare sono stati solo l’inizio della sua vicissitudine penale.

Il 9 giugno successivo Trump è stato nuovamente incriminato, a Miami in questo caso, per il ritrovamento di documenti riservati nella sua casa a Mar-a-Lago in Florida che The Donald è accusato di aver portato via illecitamente dalla Casa Bianca dopo la fine del suo mandato. I capi d’accusa in questo caso sono addirittura aumentati, salendo a 37 in un colpo solo.

All’orizzonte si stagliano, infatti, le prospettive di un’accusa a Trump per la querelle elettorale del 2020 e il tentativo di imporre allo Stato della Georgia di fermare la conta dei voti e, caso altrettanto spinoso, per la questione dell’assalto di Capitol Hill. Tutte tematiche assai complesse e divisive. Come divisiva è stata la travolgente parabola politica del finanziere diventato presidente. Oggi più che mai immagine di un’America fratturata come mai lo era stata da decenni in avanti.