Dove, quando, come e perché ha avuto inizio la crisi della Chiesa cattolica, l’Impero predestinato a prevalere contro le porte degli Inferi che sembra essere entrato in un coma irreversibile in metà del pianeta? Alcuni risponderanno che il tramonto è il risultato di una secolarizzazione indotta dalla globalizzazione e dell’americanizzazione dei costumi. Altri diranno che occorre posare lo sguardo sul passato remoto, come nel 1517 – inizio della Riforma protestante – o magari nel 1648 – fine della Guerra dei trent’anni.
La verità è che hanno ragione tutti: il declino dell’Impero dei due millenni e delle due dimensioni, Terra e Cielo, è un fenomeno tanto lungo quanto complesso, che nel corso del tempo ha affrontato fasi di accelerazione, stasi e retromarcia. È un fenomeno che ha avuto certamente inizio con la nascita di due Europe, che le guerre di religione del Seicento hanno esacerbato – si pensi alla Cechia, la culla della Guerra dei trent’anni divenuta antesignana dell’età post-cristiana – e che una serie di altri eventi, dai processi di unificazione nazionale alla diffusione globale del comunismo, hanno contribuito a cristallizzare. E tra quegli eventi, uno in particolare ha svolto un ruolo determinante: il Concilio Vaticano II.
Era dalla fine brusca e anticipata del Concilio Vaticano I – interrotto dalla breccia di Porta Pia – che i Papi serbavano il sogno di riprendere da dove Raffaele Cadorna li aveva fermati. In principio fu Pio XI nel primo dopoguerra a tentare un riavvio dei lavori, poi mai cominciati per via dei costi da sopportare e dell’isterico clima internazionale che richiedeva dalla Chiesa la massima attenzione.
Venne dunque il turno di Pio XII nel secondo dopoguerra, che istituì persino una commissione volta a verificare la fattibilità dell’evento, ma che al momento di benedire l’apertura dei cantieri tornò sui propri passi per via del timore che il neo-modernismo di ispirazione protestante potesse “avvelenare” i lavori del Concilio.
I cattolici avrebbero dovuto attendere l’epifania della Guerra fredda, anticipata dalla guerra di Corea e dalla crisi di Suez, prima che un papa si decidesse a superare la paura primordiale della protestantizzazione. Avrebbero dovuto attendere il 1959. Avrebbero dovuto attendere la salita al soglio pontificio di Giovanni XXIII.
Il Concilio Vaticano II fu avvolto e accompagnato da un manto di sacralità sin dai primordi: proclamato nel giorno di Natale del 1961, fu anticipato da un’austera vigilia basata sulla preghiera, sul digiuno e sulla penitenza; atti aventi l’obiettivo di purificare l’anima dei partecipanti e renderli graditi a Dio.
L’evento sarebbe durato tre anni, dall’11 ottobre 1962 all’8 dicembre 1965, avrebbe coinvolto circa 2.500 chierici di alto rango – cardinali, patriarchi e vescovi – e sarebbe passato sotto la supervisione di due pontefici, causa il trapasso di Giovanni XXIII il 3 giugno 1963 e la successiva elezione di Paolo VI.
I partecipanti al sinodo delle Americhe Latine e dell’Africa, terre di evangelizzazione e trincee della guerra fredda, illuminarono gli omologhi europei sulle difficoltà sperimentate dai loro connazionali, dalla povertà estrema alla violenza endemica, esortandoli a fare della Chiesa una potenza realmente atipica, perché al servizio degli Ultimi. Il loro contributo avrebbe giocato un ruolo determinante nel traghettare il Vaticano all’interno della guerra fredda e nel coscientizzare le alte sfere dell’imperativo di velocizzare quel processo di transizione identitaria cominciato timidamente da Pio XI.
Tre anni per scrivere un’epoca. Tre anni per decidere la direzione che la Chiesa avrebbe dovuto seguire da quel momento in avanti. Tre anni durante i quali, in ragione del punto di cui sopra, si discusse più di politica e riorganizzazione della vetusta struttura ecclesiastica che di fede e dogmi stricto sensu; da qui l’accento sull’imperativo di aprire la Chiesa al mondo, di adattarla al cambiamento dei tempi e renderla su misura d’uomo, e da qui la lotta senza quartiere ai detrattori del Concilio, da Giovanni XXIII ribattezzati i “profeti di sventura”.
Le aspettative erano elevatissime. Quell’epocale e macroscopico brainstorming sarebbe dovuto servire a ri-formare la Chiesa, cioè a dotarla di una forma utile a rinvigorirne la sostanza, ma lo scopo fu conseguito in maniera tanto apparente quanto parziale. Perché se è vero che il sinodo chiamò nella Città Eterna i rappresentanti di tutte le periferie del mondo, dando impeto alla de-europeizzazione di una religione nata per essere universale, lo è altrettanto che la dirigenza papale sarebbe stata travolta di lì a breve da una serie di eventi, voluti e indesiderati, innescati dal Concilio.
I lavori vennero chiusi ufficialmente l’8 dicembre 1965, in coincidenza con la Solennità dell’Immacolata Concezione, consacrando l’inizio di una nuova era per la Chiesa cattolica e il suo popolo. Un’era che da allora non ha più avuto fine e che rispetto alla precedente si contraddistingue per:
- La strutturazione della Chiesa attorno a dei nuovi pilastri fondativi: Dei Verbum, Lumen Gentium, Gaudium et Spes, Sacrosanctum Concilium.
- Il superamento definitivo dell’ordine tridentino, e dunque della latino-centricità della Chiesa, a mezzo della diffusione delle Bibbie e della celebrazione delle messe nelle lingue vive, correnti e volgari.
- L’accresciuta importanza dei laici.
- La centralità all’interno dell’agenda estera vaticana di obiettivi geospirituali quali la riunificazione di tutti i cristiani (Unitatis Redintegratio) e un’alleanza ecumenica tra le principali religioni del mondo (Nostra Aetate), in particolare tra i parenti abramitici.
- Il ripudio dell’antisemitismo teologico.
I punti di cui sopra hanno senz’altro contribuito a trasformare la Chiesa post-conciliare nella Chiesa delle genti e dell’ecumenismo, investendola di un universalismo sino ad allora inespresso, ma nulla hanno potuto contro l’avanzare della secolarizzazione in Occidente e tanto hanno fatto, invece, per catalizzare indirettamente il tramonto dell’Impero cattolico in quelle stesse periferie che il Concilio avrebbe dovuto trasfigurare.
Nel lungo termine, numeri e fatti alla mano, la de-latinizzazione della liturgia ha privato la funzione religiosa del suo alone mistico e misterico, allontanando più che avvicinando e frammentando più che unendo, mentre il mai avvenuto riposizionamento a favore dei popoli e dei poveri, palesato dalla guerra del Vaticano alla Teologia della liberazione e dall’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche nazionali alle dittature militari, ha favorito la decattolicizzazione del Sud globale.
Oggi, a oltre mezzo secolo di distanza da quell’evento che avrebbe dovuto essere la nuova Pentecoste della Chiesa, fungendo da spartiacque tra due epoche, il verdetto emesso dai posteri sembra essere tanto chiaro quanto severo: avevano ragione i profeti di sventura.