Con il termine Guerra fredda si identifica un confronto tra due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, vincitrici del secondo conflitto mondiale. Il confronto, andato avanti secondo la storiografica ufficiale dal 1947 al 1991, ha avuto natura politica, militare, culturale e ideologica, senza sfociare in una guerra diretta vera e propria. Da qui l’uso del termine “Guerra fredda”, coniato già il 19 ottobre 1945 in un articolo dello scrittore George Orwell pubblicato sul Tribune.
Il secondo conflitto mondiale vede lo scontro tra le potenze dell’asse nazifascista, guidate dalla Germania di Adolf Hitler, e quelle degli alleati. All’interno di quest’ultima coalizione siedono Paesi dal sistema politico ed economico diametralmente opposto. Da un lato ci sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, potenze capitaliste e liberali, dall’altro invece vi è l’Unione Sovietica di Josif Stalin, Paese comunista. L’alleanza regge grazie al comune obiettivo della vittoria contro i tedeschi. Ma già prima della fine della guerra emergono distanze e divisioni.
Nel febbraio del 1945, quando ormai la sconfitta tedesca appare questione di tempo, a Yalta le potenze alleate si incontrano per discutere, tra le altre cose, dello status dell’Europa nel dopoguerra. Vengono poste le basi per una suddivisione del Vecchio Continente in diverse sfere di influenza. La parte occidentale è destinata a essere nelle mani anglo-americane, mentre quella orientale, già occupata militarmente dai sovietici, in mano a Mosca.
Si prefigura una divisione netta, seppur ufficialmente viene lasciato ai popoli europei la libertà di scelta delle forme future di governo tramite elezioni da tenere in tutti i territori usciti dall’occupazione tedesca. La Germania, a sua volta, nei successivi vertici viene divisa in quattro parti: una in mano statunitense, una in mano britannica, una in mano francese e infine la parte orientale affidata ai sovietici. C’è poi il caso particolare di Berlino, ricadente nella parte orientale ma suddivisa a sua volta tra settori anglo-americani, settori francesi e infine settori sovietici.
La cesura tra occidente e oriente è destinata a diventare, già nelle prime settimane post belliche e dopo la capitolazione tedesca del 7 maggio 1945, motivo di tensione soprattutto tra Washington e Mosca. Usa e Urss escono dalla guerra mondiale nel ruolo di vere superpotenze mondiali, in grado di egemonizzare le rispettive sfere di influenza.

Obiettivo di statunitensi e sovietici è quello di solidificare ed espandere il più possibile le aree di propria pertinenza. A Washington e a Mosca lo scontro è anche di natura ideologica. Entrambe le potenze vogliono esportare le rispettive visioni del mondo: quella capitalistica per gli Stati Uniti e quella comunista per l’Unione Sovietica.
Le tensioni intraviste tra il 1945 e il 1946 diventano palesi nel 1947. Il primo vero teatro della guerra fredda è la Grecia. Qui è in corso un conflitto civile che diventa la “tempesta perfetta” per far piombare definitivamente il mondo nella spirale del confronto tra le due superpotenze. La penisola ellenica è retta da una monarchia sostenuta dal Regno Unito e dunque vicina alla politica occidentale. Ma a nord e a est è circondata da Stati comunisti. Al suo interno, nell’ambito del conflitto civile, al governo è contrapposta una coalizione di comunisti e socialisti ex partigiani che rivendicano il potere.
La posizione della Grecia è strategica e avere il controllo del Paese è essenziale sia per l’occidente che per i sovietici. Nel 1947, a causa di una drammatica inflazione al suo interno, la Gran Bretagna annuncia di non poter più aiutare il governo di Atene. La monarchia ellenica invoca l’intervento Usa. È questo il momento in cui Washington inizia ad assumere un ruolo politico egemone nello schieramento occidentale. In nome del “contenimento” dell’influenza sovietica, la Casa Bianca sostiene Atene nell’ambito della guerra civile e il governo greco riesce, nel giro di due anni, a sconfiggere le forze avversarie.
La guerra civile ellenica è un banco di prova, il primo vero braccio di ferro post bellico. L’inizio di fatto della guerra fredda. Anche se, come sottolinea l’analista greco-canadese André Gerolymatos, per la verità una netta contrapposizione ad Atene tra filo-occidentali e filo-sovietici non c’è mai stata. Stalin non arma i partigiani greci e non dà alcun ordine alle forze comuniste locali di attaccare il governo sostenuto dal Regno Unito. I gruppi ribelli, al contrario, vengono armati dalla Jugoslavia di Tito, in quella che sembra essere la prima contrapposizione tutta interna al blocco comunista.
Ma ormai la “macchina” della guerra fredda è in movimento. Ogni mossa e azione in grado di fermare o anticipare le mosse dell’avversario viene vista come lecita e legittima. Il mondo corre verso la contrapposizione tra i due blocchi.
Quanto visto in Grecia è figlio delle mosse attuate dal presidente Usa, Harry Truman. Non a caso si inizia a parlare di “dottrina Truman”, il cui caposaldo viene rappresentato dalla cosiddetta “strategia del contenimento”. In un discorso di 21 minuti tenuto il 12 marzo 1947, il presidente Usa parla della necessità di contenere la “minaccia comunista” e di creare un blocco occidentale di cui Washington costituisce il perno. Una visione non solo politica ma anche ideologica: Truman giustifica la sua dottrina con la necessità di contrapporre, ai regimi autoritari comunisti, quelli democratici dell’occidente.
Il pretesto non è solo dato dalla guerra in Grecia, ma anche dalla situazione in Turchia e in Iran dove gli Usa temono l’avanzata di forze filo Mosca. Inoltre, si punta il dito contro la progressiva instaurazione, nei Paesi di orbita sovietica, di governi monopartitici dominati dal fronte comunista. Il discorso di Truman ha come primo effetto lo stanziamento di 400 milioni di Dollari a favore della Grecia. Pochi mesi dopo Washington promulga anche il cosiddetto “piano Marshall”, uno stanziamento da 13 miliardi di Dollari a favore dei Paesi europei occidentali per rilanciare l’economia del Vecchio Continente distrutta dalla seconda guerra mondiale. Un modo per cementificare il fronte occidentale anche a livello politico. Infatti l’ottenimento dei fondi è subordinato al contenimento delle forze comuniste interni ai vari Paesi occidentali. In Italia ad esempio, il presidente del consiglio Alcide De Gasperi vara nel maggio 1947 un nuovo governo senza la presenza del Pci, il Partito Comunista Italiano, presente invece negli esecutivi post bellici.
Sull’altro versante, la strategia di Stalin è quella di creare degli Stati cuscinetto sostenendo regimi comunisti in quei Paesi dove l’armata rossa è presente dalla fine della seconda guerra mondiale. Per Mosca questo è il suo modo di contenimento dell’occidente, per Washington invece è la dimostrazione delle velleità espansionistiche dell’Unione Sovietica.
L’unità del blocco occidentale si concretizza, a livello militare, con la fondazione nel 1949 della Nato. Si tratta del patto atlantico in grado di far convergere al suo interno gli Stati Uniti e i Paesi dell’Europa occidentale. Viene inaugurata una forte collaborazione tra i vari eserciti coinvolti, vengono costruite diverse basi militari che ospitano mezzi e soldati Usa. Nello stesso anno, le tre parti della Germania in mano a Stati Uniti, Francia e Regno Unito vengono unite nella Repubblica Federale Tedesca, più nota come Germania Ovest. Dall’altra parte della barricata, Mosca preme per trasformare il proprio settore tedesco nella Repubblica Federale Tedesca, nota poi come Germania Est.
Nel 1949 viene compiuto anche il primo esperimento nucleare da parte sovietica. In tal modo cade il monopolio atomico da parte di Washington, circostanza che apre anche la corsa agli armamenti. Da questo momento la contrapposizione tra est e ovest è ancora più marcata e si consolida nel 1955, dopo l’ingresso della Germania Ovest nella Nato. Il blocco comunista, per tutta risposta, dà vita al cosiddetto Patto di Varsavia. Si tratta di un’alleanza non solo militare ma anche politica tra i vari Paesi dell’est in mano ai partiti comunisti e nell’orbita di Mosca.
La nascita del Patto di Varsavia arriva in una fase di cambiamento in seno alle due superpotenze. L’Urss infatti, dopo la morte di Stalin nel 1953, è guidata da Nikita Krusciov mentre a Washington sempre dal 1953 alla Casa Bianca siede il nuovo presidente Dwight Eisenhower. Anche se i principali due artefici della Guerra Fredda non sono più al potere, il confronto continua. Il braccio di ferro si ha pure sul fronte mediatico. Gli Usa dipingono la Nato come l’alleanza del “mondo libero”, l’Urss dal canto suo si presenta come difensore del mondo proletario e perno di tutti i sistemi socialisti.
Il braccio di ferro tra le due superpotenze però non si limita all’Europa. Washington e Mosca guardano con interesse a quanto accade, subito dopo la seconda guerra mondiale, in estremo oriente. Un territorio strategico per gli Usa in quanto permette il controllo del Pacifico, per l’Urss si tratta invece di una zona adiacente ai propri confini più orientali.
Nel 1949 in Cina avviene una svolta importante. La guerra civile in corso nel Paese viene vinta dalle forze comuniste guidate da Mao Zedong. Pechino diventa quindi una repubblica comunista e si avvicina a Mosca. Una circostanza in grado di insospettire gli Stati Uniti. Il blocco occidentale riconosce, quale legittimo rappresentante della Cina e quale possessore del seggio permanente al consiglio di sicurezza dell’Onu, il governo riparato sull’isola di Taiwan guidato dai nazionalisti di Chan Kai Shek.
A Washington sono anche preoccupati per la situazione in Corea. La penisola, finita l’occupazione giapponese, è divisa in due parti: a nord vi è un governo comunista guidato da Kim Il Sung vicino all’Urss, a sud invece vi è una giunta nazionalista filo statunitense. La vittoria di Mao in Cina fa crescere i timori di un’offensiva nordcoreana verso il sud. La linea del trentottesimo parallelo, scelta per dividere la Corea comunista da quella filo Usa, diventa così sempre più calda. Un confine, quello coreano, diventato un simbolo della guerra fredda.
Entrambi i governi coreani si accusano di violazione delle linee di frontiera. Fino a quando il 25 giugno 1950 l’esercito della Corea comunista penetra a sud. È l’inizio della guerra di Corea, primo vero scontro armato figlio della guerra fredda. Urss e Cina appoggiano Kim, gli Usa invece i sudcoreani. Nella guerra, terminata con un armistizio soltanto nel 1953, muoiono due milioni di civili, oltre che più di mezzo milione di militari da una parte e dall’altra. Lungo la penisola a scontrarsi non ci sono soltanto coreani, bensì anche statunitensi, cinesi, inglesi e diversi militari provenienti dagli eserciti della Nato.
L’armistizio fissa un nuovo confine sempre a ridosso del trentottesimo parallelo, ancora oggi valido. Per anni la Corea del Nord rappresenta un avamposto del mondo comunista nella penisola, mentre la Corea del Sud un presidio degli Stati Uniti. Una divisione mai cessata. Al nord resiste ancora oggi il governo comunista della famiglia Kim.
In Europa il confine più caldo è quello che scorre nel cuore della città di Berlino. I quartieri occupati nel 1945 da statunitensi, inglesi e francesi rappresentano un’enclave della Germania Ovest, mentre le zone in mano ai sovietici diventano nel frattempo sede del governo della Germania Est. La delicatezza del confine emerge una prima volta nel 1948, quando Stalin decide di attuare il cosiddetto “blocco di Berlino” in risposta al rifiuto, da parte degli Usa, di riconoscere danni di guerra all’Urss da parte della Germania Ovest.
La decisione diventa operativa il 24 giugno 1948, con i punti di accesso a Berlino Ovest blindati e con lo stacco delle forniture elettriche e di cibo. Gli Usa, assieme agli alleati, promuovono un ponte aereo partito il 25 giugno per rifornire di viveri la parte occidentale della città. Il blocco termina l’anno seguente, ma causa strascichi di non poco conto tra i cittadini berlinesi e nell’opinione pubblica occidentale. Nel 1961 l’ex capitale tedesca torna al centro dei riflettori. In quel momento la guerra fredda è in una fase diversa rispetto all’inizio. A Mosca è in atto la “destalinizzazione”, iniziata da Krusciov dopo la morte di Stalin avvenuta nel 1953. In seno all’opinione pubblica occidentale pesano i fatti di Ungheria del 1956, con i sovietici intervenuti militarmente a Budapest per sedare proteste contro il governo comunista. Un episodio che rafforza la retorica Usa dello scontro tra mondo libero e totalitarismi.
A Berlino in quel 1961 si registrano sempre più passaggi dalla parte orientale a quella occidentale. Un’emigrazione che rischia di penalizzare la Germania Est. Da Mosca arriva l’input di iniziare a pensare a una barriera capace di blindare Berlino Ovest. Nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 viene rafforzato il controllo al confine con l’ausilio anche di barriere composte da filo spinato. Pochi giorni dopo compaiono i primi blocchi di cemento. Berlino è adesso divisa ed è impossibile raggiungere da est la parte occidentale e viceversa. La città tedesca inizia a convivere con il muro destinato a diventare simbolo per eccellenza della guerra fredda e della contrapposizione tra i due blocchi.
All’inizio degli anni ’60 l’Europa non è l’unico terreno di scontro. Nel 1959 a Cuba, isola caraibica a pochi chilometri dalle coste della Florida, una rivoluzione porta al potere Fidel Castro. Giovane leader comunista, il nuovo capo cubano rovescia il filo statunitense Batista e forma un governo socialista non lontano geograficamente dagli Usa. Per Washington la situazione appare allarmante. Tanto che il nuovo presidente John F. Kennedy, nell’aprile del 1961, autorizza un’invasione dell’isola per rovesciare Castro. Ma il tentativo armato viene stroncato con la sconfitta militare presso la Baia dei Porci.
La Cia l’anno seguente raccoglie informazioni circa la possibilità che l’Urss possa stanziare su Cuba missili e ordigni nucleari puntati verso le città statunitensi. In quel momento infatti la corsa nucleare raggiunge l’apice e Mosca sostiene di aver eguagliato le potenzialità belliche di Washington. Nell’ottobre del 1962 si raggiunge l’apice del braccio di ferro: il 22 ottobre Kennedy denuncia pubblicamente la presenza di missili sovietici a Cuba e impone il blocco navale attorno l’isola. Il mondo, dalla fine della seconda guerra mondiale, non sembra mai così vicino come adesso a un nuovo conflitto armato e a una vera apocalisse nucleare. La crisi dei missili, come viene in seguito ribattezzata, genera allarme a livello globale. Le trattative diplomatiche appaiono frenetiche, si interessa della questione anche Papa Giovanni XXIII che fa appello a una soluzione di tipo pacifico. Alla fine l’Urss si impegna a ritirare le testate da Cuba, in cambio della promessa Usa di non detronizzare Castro dal potere. Nel novembre termina anche il blocco navale e la situazione rientra.
La crisi dei missili di Cuba è l’apice della prima fase della guerra fredda. Successivamente si avvia una fase apparentemente più tranquilla che gli storici identificano con il termine “distensione”. Non vuol dire però che tra Usa e Urss le tensioni siano smorzate. Semplicemente, il mondo attraversa un periodo diverso rispetto a quello dei primi anni post bellici. La stessa precisa contrapposizione tra i due blocchi appare più smussata. All’interno del fronte occidentale gli Usa hanno sempre una posizione dominante, ma sul campo economico Europa e Giappone appaiono oramai come realtà ben più consolidate. Inoltre nel 1966 si registra la defezione della Francia, diventata nel 1960 anch’essa una potenza nucleare, dalla Nato e il tentativo di Parigi di avere una propria politica di difesa.
Dall’altro lato della barricata, anche il fronte comunista non è più compatto come nei primi anni. I pessimi rapporti tra il leader jugoslavo Tito e Stalin si tramutano poi in tensioni vere e proprie tra Belgrado e Mosca. La Jugoslavia approva una via “autonoma” al comunismo e si pone capofila tra i cosiddetti “Paesi non allineati”, un complesso di nazioni che sceglie di non stare né con Washington e né con Mosca. Complicati anche i rapporti tra Urss e Cina. Fattore questo che favorisce, sotto la presidenza di Richard Nixon, il riavvicinamento tra Stati Uniti e il governo cinese. Storica in tal senso la visita dello stesso Nixon a Pechino nel 1972, preludio alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Pochi anni dopo, a seguito della morte di Mao, la Cina riprende il seggio all’Onu precedentemente occupato da Taiwan.
A questi elementi occorre aggiungere la decolonizzazione e la fine degli imperi coloniali di Francia e Regno Unito. Si è di fronte a un complessivo nuovo assetto politico e militare, dove la guerra fredda continua a essere un fattore imperante senza tuttavia nuove escalation. In questi anni l’unico vero confronto militare si ha ancora una volta in estremo oriente, con la guerra che vede contrapposto il Vietnam del Nord, retto dal comunista Ho Chi Minh, e il Vietnam del Sud filo Usa. Il conflitto dura dieci anni e culmina nel 1975 con la ritirata delle forze statunitensi dalla città di Saigon. Uno smacco importante che denota difficoltà da parte delle superpotenze di incidere come nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale.
Il settore in cui la guerra fredda viene vissuta in molti suoi aspetti negli anni ’60 è quello aerospaziale. Usa e Urss danno vita, dopo la rincorsa alle armi nucleari per la verità mai cessata, anche alla rincorsa allo spazio. Ingenti quantità di denaro vengono investite dalle due parti per potenziare programmi tecnologici e scrivere il proprio nome nella conquista dello spazio.
Nell’ottobre del 1957 l’Unione Sovietica lancia nello spazio il primo satellite artificiale, denominato Sputnik I. A Washington rispondono con il programma Apollo, il cui obiettivo è quello di mandare l’uomo sulla Luna. Il primo uomo invece ad andare nello spazio è il russo Jurij Gagarin, il quale a bordo della Vostok I il 12 aprile 1961 riesce per la prima volta a volare oltre l’atmosfera.
L’evento forse rimasto più impresso, almeno sul lato occidentale, di questa fase è il primo atterraggio dell’uomo sulla Luna. Il 20 luglio 1969 l’astronauta Usa Neil Armstrong, a bordo dell’Apollo 11, è il primo uomo a mettere piede sul nostro satellite. Dopo questo evento, si segnalano altri quattro atterraggi lunari. Tuttavia, sia a livello mediatico che politico, nei primi anni ’70 l’interesse verso lo spazio diminuisce e la corsa, di pari passo con la distensione della guerra fredda, rallenta.
Lo scenario cambia nuovamente tra il 1978 e il 1980. In questo biennio accadono eventi in grado di condizionare il corso della guerra fredda. Nell’ottobre del 1978 viene eletto come nuovo Pontefice Giovanni Paolo II, primo Papa polacco della storia e sovrano della Chiesa proveniente quindi da oltre la cortina di ferro. L’anno dopo l’Urss invade l’Afghanistan e si immerge in una guerra destinata a essere ricordata come fallimentare per Mosca. Nel 1980 invece viene eletto alla presidenza degli Stati Uniti il repubblicano Ronald Reagan, fautore di una più vigorosa ripresa del confronto con l’Unione Sovietica.
Il nuovo leader statunitense alla dottrina Truman relativa al contenimento, aggiunge la sua personale di dottrina che parla anche del diritto di sovvertire i governi filo comunisti nel mondo. Un elemento che sta alla base della “giustificazione” della vendita delle armi ai gruppi islamisti in lotta contro i sovietici in Afghanistan oppure ai gruppi cosiddetti “contras” in Nicaragua, i quali si oppongono ai rivoluzionari sandinisti. L’attivismo anti Mosca di Reagan è ben presente in sud America, dove la Casa Bianca conferma la strategia attuata già negli anni ’70 di appoggio ai regimi militari sorti in buona parte dei Paesi del continente in funzione anti socialista.
Il presidente Usa aumenta la spesa militare, costringendo l’Urss a un nuovo importante confronto. Trascinare Mosca in una nuova corsa agli armamenti determina un ulteriore indebolimento dell’Unione Sovietica, già alle prese con una grave crisi economica. A questo si aggiunge uno stallo politico successivo alla morte, avvenuta nel 1982, del leader Leonid Breznev, in sella al Cremlino dal 1966. I suoi successori non sono in grado di dare stabilità al Partito Comunista (Pcus) e delle istituzioni. La dottrina Reagan, in cui l’Urss viene definita come “impero del male”, va avanti lungo tutto il corso degli anni ’80.
Nel 1985 il Partito Comunista Sovietico fatica a trovare stabilità. Dopo Breznev vengono eletti quali segretari Jurij Andropov e Kostantin Cernenko, entrambi deceduti poco dopo aver preso possesso della guida del partito e del Paese. L’11 marzo del 1985 gli organi supremi del Pcus decidono di attuare una svolta eleggendo Michail Gorbacev. Più giovane dei predecessori, la sua scalata rappresenta un salto generazionale tra i leader dell’Urss. La situazione che eredita è disastrosa: le spese militari assorbono il 25% del Pil, l’economia fortemente dipendente dalle esportazioni di gas e petrolio è in una fase stagnante senza precedenti a causa del calo dei prezzi del greggio.
Gorbacev decide quindi di provare a dare una sterzata alla situazione. Nel 1987 il leader sovietico lancia un termine destinato a diventare famoso anche in occidente: perestrojka. Traducibile con “ristrutturazione”, con questa parola Gorbacev indica una serie di programmi di riforme economiche volte a superare il sistema fino ad allora vigente. Viene riconosciuta la proprietà privata a determinate categorie di imprese e si apre alla possibilità di ricevere investimenti stranieri.
Al fianco delle riforme economiche si provano ad attuare anche riforme politiche e sociali. Si riorganizzano infatti i ministeri, vengono lanciate campagne anti corruzione e si inizia a introdurre maggiore libertà di stampa. Al fianco del termine perestrojka diventa famoso anche il termine “glasnost”, traducibile con “apertura”. Le riforme tuttavia non sortiscono gli effetti sperati. Da un lato per l’opposizione dei più conservatori all’interno del partito, dall’altro perché l’Urss si rivela ancora non pronta ad assorbire massicci cambiamenti. Mosca di fatto diventa ancora più debole e questo apre la strada alla fase finale della guerra fredda.
L’arrivo al potere di Gorbacev coincide subito con una maggiore distensione con gli Usa. Il primo incontro tra il leader sovietico e Ronald Reagan avviene già nel 1985 a Ginevra. Si aprono negoziati per la riduzione degli armamenti nucleari, denominati poi “Start”, i quali non sortiscono inizialmente effetto ma che portano le due parti a incontrarsi più volte nel corso degli anni. Un primo risultato tangibile in tal senso si ha con la firma a Washington del trattato Inf, avvenuto al termine di uno storico bilaterale negli Usa tra Gorbacev e Reagan. Con questo documento le due superpotenze si impegnano all’eliminazione di tutti i missili balistici e da crociera lanciati da terra con armi nucleari con gittate tra i 500 e i 5 500 chilometri e le loro relative infrastrutture.
Le riforme di Gorbacev in Unione Sovietica e la sua popolarità assunta anche agli occhi dell’opinione pubblica occidentale facilitano il disgelo. Nel 1988 si ha la storica visita di Reagan a Mosca, tre anni più tardi il suo successore, George Bush, sigla con Gorbacev il trattato Start I con il quale si decide lo smantellamento di migliaia di testate nucleari. La guerra fredda appare oramai agli sgoccioli.
Ad accelerare la fine del confronto tra i due blocchi sono le proteste che avvengono nel 1989 nei Paesi filo sovietici. Già nel 1983 in Polonia, patria di Giovanni Paolo II, si hanno primi scioperi contro il sistema comunista. Ma è per l’appunto nel 1989 che cade l’impalcatura del trattato di Varsavia. Tutto parte ancora una volta dalla Polonia: il 4 giugno vengono organizzate elezioni multipartitiche a cui partecipa anche la formazione Solidarnosc, fondata durante i moti del 1983. A seguito delle consultazioni viene dato vita al primo governo non comunista del secondo dopoguerra.
Sulla scia dell’esperienza polacca, anche in Ungheria si rompe il monopolio dei comunisti al potere. Viene formato, nell’estate del 1989, un nuovo governo riformista che il 23 agosto decide di aprire le frontiere. A ottobre il partito comunista si trasforma in socialista e viene approvata una riforma che concede elezioni multipartitiche. Mosca non interviene né in Polonia e né in Ungheria, oramai di fatto staccate dalla propria orbita. L’apertura delle frontiere ungheresi determina un’ondata di profughi dalla Germania Est tramite il territorio austriaco. La pressione migratoria è tale che, anche per via delle proteste sorte nelle principali città tedesche orientali, il governo locale è costretto ad aprire le frontiere.
Il 9 novembre, durante una conferenza stampa, un membro del comitato del partito della Germania Est rende pubblica l’apertura dei valichi con effetto immediato. Un’affermazione ascoltata in diretta tv che spinge molti berlinesi dell’est a recarsi attorno al muro costruito nel 1961 per entrare nella parte occidentale. In migliaia riescono a passare il confine e di fatto cade così il simbolo della guerra fredda.
La fine del muro di Berlino ovviamente accelerare ulteriormente gli eventi. In Germania Est, da qui a breve, si organizzano elezioni multipartitiche e si apre la strada alla riunificazione, avvenuta l’anno successivo. In Cecoslovacchia scoppiano proteste nel novembre 1989 culminate poi con la nomina di un governo non comunista. Proteste vengono segnalate anche in Bulgaria sul finire dell’anno. L’ultimo Paese comunista a cadere è la Romania guidata da Nicolae Ceausescu, al potere dagli anni ’60 e fautore di una politica apparentemente autonoma dall’Urss. Le proteste sconvolgono il Paese e il 25 dicembre 1989 l’esercito decide di esautorare e giustiziare il leader rumeno. In tal modo di fatto la cortina di ferro di influenza sovietica non esiste più.
Il Patto di Varsavia viene formalmente sciolto nel marzo del 1991. Anche sulla carta quindi da quel momento viene a mancare la forza antagonista alla Nato. L’Urss, senza più i suoi Paesi satelliti e con riforme mai decollate, sembra vacillare. Mosca non si oppone all’intervento Usa contro l’Iraq di Saddam Hussein nel gennaio 1991, certificando ulteriormente la fine della contrapposizione tra due blocchi e due superpotenze. Il mondo sovietico termina del tutto nella seconda parte dell’anno. Ad agosto viene tentato un colpo di Stato contro Gorbacev. Ma le velleità golpiste falliscono.
Tuttavia il leader sovietico appare estremamente indebolito, anche perché alcune repubbliche salutano la federazione. A Mosca il presidente della repubblica russa, Boris Eltsin, prende il sopravvento e mette al bando il partito comunista. L’8 dicembre la Russia, assieme alle repubbliche di Ucraina e Bielorussia, dà vita a un accordo che di fatto sancisce lo smembramento dell’Urss. Il 12 dicembre è la stessa repubblica russa a ritirarsi dalla federazione. Gorbacev, oramai isolato, il 25 dicembre 1991 si dimette dalla carica di segretario del partito e il giorno dopo il comitato supremo scioglie definitivamente l’Unione Sovietica. La bandiera rossa viene quindi ammainata dal Cremlino e l’eredità politica passa alla Russia di Boris Eltsin. Gli storici individuano in questo momento la fine definitiva della guerra fredda.