Che cos’è l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva

Ogni grande potenza che possieda delle aspirazioni egemoniche su ciò che viene ritenuto spazio vitale, o estero vicino o sfera di prosperità, ha l’imperativo di trasformare i subordinati in satelliti, possibilmente attraverso la realizzazione di agende di assimilazione culturale – che facilita l’assoggettamento politico – e la costituzione di alleanze multisettoriali, meglio se riguardanti la sicurezza della comunità.

La dura lex delle potenze che sognano l’impero non ammette deroghe, pena la costruzione di ordini intrinsecamente fragili, e spiega perché, ad esempio, gli Stati Uniti abbiano istituito l’Alleanza Atlantica (e non vogliano un esercito autonomo europeo) e perché l’Unione Sovietica abbia avuto il Patto di Varsavia. E spiega anche perché la Federazione russa, nell’immediato post-guerra fredda, abbia dato vita all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, della cui esistenza il pubblico laico, non specializzato, è venuto a conoscenza nel gennaio 2022, in occasione dello scoppio della crisi kazaka.

 

L’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC, Организация Договора о коллективной безопасности) è un’alleanza intergovernativa di natura militare le cui origini risalgono al 1992, anno dello stabilimento del Trattato di Sicurezza Collettiva (TSC) nell’ambito della Comunità degli Stati Indipendenti.

Il documento fondativo del TSC fu siglato il 15 maggio 1992 in quel di Tashkent, capitale della nazione uzbeka, dai rappresentanti di ArmeniaKazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan. Un anno più tardi, nel 1993, al TSC si sarebbero uniti Azerbaigian, Bielorussia e Georgia. Nel 1994, infine, la definitiva entrata in vigore del trattato istitutivo e, dunque, la nascita formale dell’alleanza militare degli stati postsovietici.

Soltanto tre anni dopo, nel 1997, gli Stati Uniti avrebbero segnato il primo colpo di rilievo nello spazio postsovietico, determinando una dura e pesante battuta d’arresto del TSC. Quell’anno, infatti, nacque l’Organizzazione per la Democrazia e lo Sviluppo economico, altresì nota come il Gruppo di Guam (acronimo di Georgia, Ucraina, Azerbaigian, Moldavia), che due anni più tardi, nel 1999, avrebbe persuaso azeri e georgiani a non rinnovare l’adesione al TSC e magnetizzato anche gli uzbeki.

I timori (più che fondati) di una deflagrazione del TSC – baluardo della neonata Russia contro l’ingresso dirompente dell’Occidente nel proprio spazio vitale –, sommati agli altri accadimenti rovinosi che caratterizzarono il “nuovo periodo dei torbidi“, avrebbero giocato un ruolo-chiave nella detronizzazione di Boris Eltsin e nell’ascesa di Vladimir Putin. Putin che, non a caso, fece dell’inverdimento del TSC una delle priorità del Cremlino, pilotandone la trasformazione nella più potente e solida Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva nel 2002.

L’OTSC può essere considerata la controparte eurasiatica della Nato, cioé una riedizione del Patto di Varsavia adattata al mutamento dei tempi e dei paradigmi. Fra il 2002 e il 2021, ad ogni modo, mentre la Nato si allargava, inglobando nuovi membri, e si automigliorava, pubblicando strategie ed eseguendo esercitazioni a cadenza regolare, l’OTSC ha vissuto una specie di stand-by.

Con l’eccezione delle maxi-esercitazioni militari del 2011, coinvolgente più di diecimila soldati e settanta aerei da combattimento, e del 2014, incentrata sulla guerra di tipo cibernetico e psicologico, e di un accordo di collaborazione con l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, l’OTSC non ha brillato né per lungimiranza né per reattività, dando l’impressione di essersi dotata di uno scheletro istituzionale – un segretariato generale e una presidenza a rotazione – a scopo puramente simbolico. Numeri e fatti alla mano, invero, fra il 2002 e il 2021 l’OTSC è stata ostaggio, testimone inerme, di dissidi interni e rivoluzioni colorate:

  • 2008. La Russia non riesce a convincere i membri dell’OTSC a riconoscere l’indipendenza dalla Georgia di Abchasia e Ossezia del Sud.
  • 2009. La Bielorussia boicotta gli incontri dell’OTSC a causa di incomprensioni con la Russia, poi sfociate nella cosiddetta “guerra del latte”, agitando lo spettro di una fuoriuscita dall’alleanza.
  • 2010. Una rivoluzione porta alla detronizzazione di Kurmanbek Bakiyev, presidente del Kirghizistan. L’alleanza rigetta la richiesta di assistenza lanciata dalla presidenza ad interim, mentre Bakiyev trova riparo e asilo in Bielorussia. Aleksandr Lukashenko mette nuovamente in dubbio l’utilità dell’OTSC.
  • 2012. L’Uzbekistan, rientrato nell’alleanza nel 2006, sospende nuovamente la propria adesione. Fondamentali, nella maturazione della decisione, gli eventi in Kirghizistan di due anni prima.

Il 2022 si è aperto con una crisi, improvvisa e incredibilmente violenta, nel cuore dell’Asia centrale: il Kazakistan. Una crisi scaturita il 2 gennaio dal caroenergia, e che tre giorni dopo, il 5, ha spinto il presidente Kassym-Jomart Tokayev ad inviare una richiesta di aiuto all’alleanza.

A differenza del Kirghizistan nel 2010, dove una chiave di lettura (molto valida) interpreta l’inazione dell’OTSC in termini di redde rationem tra l’inaffidabile Bakiyev e il Cremlino, i membri dell’alleanza hanno raccolto l’appello di Tokayev e provveduto ad inviare i primi mantenitori della pace già a partire dal giorno successivo. Una mobilitazione rapida, oltre che massiccia, che potrebbe essere il preludio di una nuova epoca: fine dello stand by, inizio dell’attività.

In questa nuova epoca, cominciata ufficialmente nel gennaio 2022, l’OTSC potrebbe essere chiamata a svolgere il ruolo di difenditrice del modello delle autocrazie illuminate dallo spettro delle rivoluzioni colorate. Un ruolo che, se espletato con successo nel teatro kazako, potrebbe comportare il ritorno dell’eternamente diffidente Uzbekistan, l’allargamento alla Serbia – osservatore dal 2013 – e l’avviamento di negoziati con degli stati a lungo corteggiati, come il Turkmenistan.