Marzo è stato il mese della grande paura: dopo i primi casi di coronavirus rintracciati nel nord Italia, in questo mese il panico da epidemia si è diffuso in tutta Europa. Nel nostro Paese si è arrivati ai primi provvedimenti di restrizione a livello nazionale, con il lockdown totale scattato il 10 marzo. Ma mentre il mondo entrava nel vortice della pandemia, dichiarata ufficialmente dall’Oms l’11 marzo, in medio oriente ci si apprestava ad assistere a nuovi importanti mutamenti. In Israele si tornava infatti al voto per la terza volta in un anno, mentre l’ungo l’asse Mosca – Riad nasceva una vera e propria guerra del petrolio destinata ad incidere sulle politiche energetiche dell’intero 2020. Cambiamenti di primo piano trascinati però dal Covid nel chiuso delle terze e quarte pagine dei quotidiani.

Nasce l’intesa Netanyahu – Gantz

Il coronavirus stava picchiando duro anche in Israele quando nel Paese sono state aperte le urne per nuove elezioni anticipate. Il 2 marzo i cittadini dello Stato ebraico sono tornati al voto dopo che per la terza volta i partiti della Knesset, il parlamento israeliano, non hanno trovato alcun accordo per la nascita di un nuovo governo. Il premier uscente era Benjamin Netanyahu, del partito di centro – destra del Likud. La caduta del suo ultimo esecutivo, datata dicembre 2018, ha causato una lunga crisi di governo che dopo due consultazioni non era ancora rientrata. A sfidare il leader del Likud era Benny Gantz, ex capo di stato maggiore dell’esercito e rappresentante della lista centrista “Blu&Bianco“, nata in occasione delle consultazioni del 2019. Dietro i due principali partiti, una lunga sfilza di formazioni minori. Alcune collocabili a destra, altre invece vicine alla sinistra, così come non mancavano anche i due storici partiti religiosi, Shas e Giudaismo Unito nella Torah. I tre partiti rappresentanti della popolazione araba si sono uniti nella “Lista Comune“. Ancora una volta il voto non ha dato un chiaro orientamento.

Il Likud di Netanyahu è risultato il partito con la maggioranza relativa, ma ha ottenuto 36 deputati su 120 allontanandosi quindi dall’obiettivo della maggioranza assoluta. Blu&Bianco ha ottenuto 33 parlamentari e la lista araba unita 15. Sommando i voti dei partiti di centro – destra, si è arrivati a una coalizione di 58 deputati, numero non necessario per formare un nuovo governo. Lo stallo è stato risolto soltanto a fine mese. I due rivali infatti, hanno trovato l’accordo per formare un ampio governo capace di accorpare i deputati di entrambi gli schieramenti e dei partiti religiosi. La svolta è stata certificata il 26 marzo, con l’elezione di Gantz quale nuovo presidente della Knesset. Pochi giorni dopo, i due diretti protagonisti hanno confermato l’intenzione di dare vita al nuovo esecutivo anche con l’obiettivo di lottare contro il dilagare dell’infezione da coronavirus. Ad aprile è nato ufficialmente il nuovo governo di Netanyahu: l’accordo ha previsto, tra le altre cose, un tandem di 18 mesi con lo stesso Gantz, che dovrebbe diventare nuovo premier nel settembre 2021. Ma ad inizio dicembre l’intesa è sembrata già vacillare: la Knesset il primo dicembre ha approvato una prima mozione che potrebbe portare all’autoscioglimento dell’assemblea e a nuove elezioni già il prossimo anno.

La guerra del petrolio

Con i primi lockdown tra la Cina e l’Europa, l’economia globale ha iniziato a vivere una fase di profonda e repentina recessione. Questo ha significato una diminuzione della domanda di petrolio, le cui conseguenze su scala politica sono diventate ben evidenti il 6 marzo. Quel giorno infatti si è avuto il primo grave scontro interno al cosiddetto Opec +, il cartello cioè che riunisce i Paesi produttori di greggio aderenti all’Opec con la Russia. Il primo gruppo è storicamente trainato dall’Arabia Saudita. Nel 2017 gli accordi tra Riad e Mosca hanno dato le chiavi della gestione delle politiche petrolifere ai due Paesi. Ma in quel 6 marzo sono sorti profondi dissidi, in seno alla riunione dell’Opec +, tra sauditi e russi. I primi, allarmati da un drastico calo nella richiesta di petrolio che ha quindi comportato la caduta del prezzo dell’oro nero, volevano imporre un piano di tagli alla produzione per giungere ad una fase di riequilibrio del costo del petrolio. Dal Cremlino invece sono arrivati input diversi: l’obiettivo era evitare di spingere il prezzo verso l’alto per tagliare fuori dal mercato gli Stati Uniti, i quali già da tempo hanno iniziato a meditare di conquistare la scena con il loro shale oil.

Le divergenze tra i due principali Paesi produttori hanno portato a una vera e propria guerra. L’Arabia Saudita per tutto il mese di marzo ha perseguito una politica di tagli dei prezzi del proprio greggio per aumentare le esportazioni e conquistare quote di mercato in Europa, terreno vitale per le esportazioni di greggio della Russia. Inoltre i Saud hanno implementato la produzione, fino ad arrivare a 12.3 milioni di barili estratti al giorno. L’intento dichiarato da parte di Riad era quello di colpire Mosca e costringere il Cremlino a sedersi nuovamente al tavolo dell’Opec +. Tuttavia, come spiegato da Andrea Muratore su InsideOver, la Russia ha una maggiore capacità di resistenza in un mercato caratterizzato da prezzi bassi. Dunque, la guerra iniziata potrebbe andare a tutto svantaggio sia dei sauditi che degli stessi americani, questi ultimi poco competitivi con le riserve di shale oil. Lo strappo in seno all’Opec + è stato solo parzialmente ricucito nella riunione tenuta a dicembre. Si è trovato infatti un accordo per una graduale ripresa della produzione nel 2021. Ma altre tensioni sono già all’orizzonte, specialmente perché all’interno della stessa Opec diversi Paesi, tra cui gli Emirati Arabi Uniti, non hanno rispettato i tagli alla produzione precedentemente concordati.

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