Tutti contro la Cina o, più in generale, contro gli autoritarismi che non rispettano le regole democratiche. Potrebbe essere questo lo slogan per riassumere la presa di posizione dei leader che hanno partecipato all’ultimo G7, a cui è seguito un altrettanto incisivo vertice Nato, il primo dell’era Joe Biden. Almeno a parole, gli Stati Uniti sembrerebbero aver convinto i propri partner storici a prender parte alla resa dei conti finale che, nelle intenzioni di Washington, dovrebbe sancire la vittoria del Fronte democratico a discapito del Fronte autocratico. Da Mario Draghi a Boris Johnson, i presenti hanno condiviso le affermazioni di Biden. Eppure ci sono due grandi riserve ancora da sciogliere. La prima: i capi di Stato che hanno appoggiato l’inquilino della Casa Bianca saranno pronti ad agire concretamente per limitare l’influenza della Cina in Occidente, oppure si fermeranno solo all’appoggio verbale?

Questa domanda è in realtà il vero, grande problema del G7. Stiamo sì parlando di un’organizzazione compatta, atlantista e unita in nome degli stessi valori democratici e liberali. Ma, al tempo stesso, non dobbiamo dimenticarsi che all’interno del gruppo dei sette vivono anime politiche e sociali molto diverse tra loro. E non tutte accomunate dall’idea di attuare la medesima strategia per confrontarsi con Pechino. La seconda riserva riguarda invece l’attuazione pratica di quanto stabilito a Carbis Bay. Se è vero che sono stati diffusi comunicati e dichiarazioni d’intenti sull’intenzione di bloccare l’influenza cinese, è altrettanto vero che, almeno per il momento, mancano ulteriori indicazioni su come e quando agire.

La posizione di Macron e Merkel

Torniamo al primo punto sollevato, in particolare alle varie anime che popolano il G7. Partiamo col dire che Washington rappresenta l’attore più importante del gruppo, nonché quello che più ha da perdere nel testa a testa con la Cina. È logico che la spinta propulsiva anti cinese sia partita da Biden e non da un altro leader. È pur vero che, tranne sporadiche eccezioni, gli altri membri del G7 devono bilanciare i propri interessi nazionali ed economici con le alleanze valoriali e politiche.

In altre parole, va bene sostenere la necessità di un atteggiamento più duro nei confronti del Dragone, ma non troppo al punto da inimicarsi definitivamente Pechino. Non è una questione di doppiogiochismo, quanto piuttosto di realpolitik. Una simile posizione è stata incarnata alla perfezione da Francia e Germania. Sia Emmanuel Macron che Angela Merkel danno l’impressione di preferire un approccio morbido rispetto a quello decisamente più hard di stampo americano. Ma che cosa si intende per approccio morbido? Semplice: dividere l’ambito commerciale dall’ambito politico. Detto in altre parole: è possibile fare affari con la Cina anche se il Dragone sposa un sistema valoriale completamente agli antipodi rispetto a quello europeo.

Un’unità complessa

L’asse franco-tedesco potrebbe quindi creare a Biden qualche grattacapo non considerato. Prendiamo la Germania: per Berlino, la Cina rappresenta la prima destinazione delle sue esportazioni. Dunque, perché mai compromettere un vantaggio economico niente affatto trascurabile e avventurarsi in un progetto per giunta neanche definito? È per questo che Merkel ha affermato di essere “a favore di qualcosa e non contro”.

Lo stesso Macron si è apprestato a chiarire che il G7 non è affatto un club anti cinese, quasi a volersi smarcare dall’abbraccio troppo ingombrante di Biden. Perfino Mario Draghi, che ha comunque aperto a una revisione della Via della Seta, ha fatto capire come sia necessario continuare a collaborare con la Cina con questioni quali la lotta al cambiamento climatico. Insomma, tra Stati Uniti ed Europa esistono numerosissimi punti di contatto, e pure la volontà di arginare l’avanzata cinese. Permane però un’evidente discrasia sul modus operandi con il quale contenere Pechino.





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