Israele ritorna alle elezioni in quello che sembra esser diventato un deja-vù eterno, un continuo rincorrersi di stalli. E nuovamente ci troviamo a commentare un voto che avrà una chiara dinamica: Benjamin Netanyahu contro tutti.

Le elezioni del primo giorno di novembre saranno le quinte in tre anni e mezzo di stallo politico e tensioni. Come i quattro precedenti, il voto è ritenuto un referendum su Netanyahu. Figura polarizzante, leader di Israele per quindici degli ultimi ventisei anni, “Bibi” si è spostato sempre più a destra dopo la caduta del suo ultimo esecutivo nel 2021. Ora è schierato sulle posizioni più oltranziste e nazionaliste del campo sionista e sul conservatorismo sociale assieme al suo Likud. E spera nello spostamento dell’asse della politica nazionale verso posizioni più identitarie e conservatrici per riconquistare il potere.

Dopo che il suo mandato è stato concluso l’anno scorso dalla formazione di un’ampia coalizione di otto partiti unita principalmente dal desiderio dei suoi membri di estrometterlo dal potere, il suo successore Naftali Bennett, uomo pragmatico di destra, ha provato a dare una scossa in nome dell’unità nazionale: investimenti in innovazione, ricerca di un modus vivendi con i Paesi vicini, rafforzamento della diplomazia globale di Israele, da ultimo abbassamento delle tensioni nella guerra tra Russia e Ucraina appena scoppiata. L’incoerenza di una coalizione troppo ampia è però venuta a galla e la caduta di Bennett ha coinciso con la fine dell’esperimento rivoluzionario di ricucitura del Paese contro la percepita minaccia del divisionismo marcato di Netanyahu.

Il 73enne Netanyahu si ritrova dalla parte dello sfidante alle urne per la prima volta in più di un decennio mentre Tel Aviv va al voto guidata dal governo reggente di Yair Lapid, che col suo partito centrista Yesh Atid potrebbe conquistare 27 seggi, preceduto solo dal Likud con 30. Netanyahu ha buone occasioni di guidare il partito più votato, ma la sua ambizione di riconquistare il potere è complicata dal suo processo per accuse di corruzione relative ai suoi rapporti con ricchi uomini d’affari e magnati dei media durante il suo mandato. L’ex primo ministro ha respinto le accuse di corruzione e frode. Ma queste, combinate con una serie di faide con ex alleati accumulate durante i suoi anni in politica, hanno dato forza ai suoi avversari e ristretto le sue opzioni per la costruzione di coalizioni. Netanyahu andrà ad affrontare il complesso processo post-elettorale di formazione del governo collegando il suo destino politico sempre più strettamente con quello dell’estrema destra israeliana.

In quest’ottica il Likud potrebbe avere un alleato nella destra sionista reazionaria e anti-araba formata dal terzo polo elettorale più importante secondo i sondaggi: quello costituito dall’Unione Nazionale e da Otzma Yehudit (Forza Ebraica) e che sta avendo negli ultimi tempi come volto noto il tribuno Itmar Ben-Gvir. Sommando i 15 seggi papabili di cui il terzo polo è accreditato ai seggi di Giudaismo Unito nella Torah e Shas, altre due formazionni della destra, il Likud dovrebbe totalizzare tra 58 e 62 seggi a favore di Netanyahu premier, sul filo per ottenere la maggioranza assoluta. A suo favore gioca lo spaesamento nella maggioranza, anche se in un secondo momento il blocco anti-Netanyahu potrebbe ricompattarsi.

A favore delle sorti elettorali della destra, e delle fortune di figure come Ben-Gvir, gioca la delicata condizione securitaria che vive Israele. Le elezioni arrivano infatti nel mezzo di una delle fasi recenti più letali del conflitto israelo-palestinese, che ha visto alcuni commentatori esprimere timori di una “terza intifada” o rivolta. “Siamo sicuri che le elezioni israeliane non porteranno un partner per la pace”, ha detto lunedì il primo ministro palestinese Mohammed Shttayeh. A seguito di una serie di attacchi mortali contro gli israeliani a marzo, in cui molte vittime erano civili, Israele ha effettuato più di 2.000 raid in Cisgiordania, perseguendo i palestinesi accusati di avere legami con gruppi militanti.

Più di 120 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano in Cisgiordania quest’anno – tra cui molti non combattenti – un dato che rappresenta il bilancio più pesante nel territorio dal 2015. Proprio alla vigilia del voto le forze israeliane hanno effettuato un grande raid contro una nuova milizia palestinese a Nablus, una città nella Cisgiordania occupata. Funzionari palestinesi e membri della milizia hanno detto che il raid ha ucciso un leader del gruppo e altri quattro uomini. Israele, scrive il New York Times, “ha accusato la milizia, nota come la Tana dei Leoni, per un aumento delle sparatorie che dice siano rivolte alle sue truppe e agli insediamenti ebraici”. Al contempo, anche l’escalation data da Lapid alla guerra-ombra contro l’Iran sta rilanciando molte tematiche securitarie care a Netanyahu. Il quale spera nel suo ritorno al governo in quello che sarebbe il terzo tempo da premier dopo il 1996-1999 e il 2009-2021, operando come suo solito attorno alla polarizzazione sociale di Israele attorno al suo nome. Di cui sembra che Tel Aviv non riesca a fare a meno, come speranza o spauracchio.

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