Il voto delle legislative è un terremoto politico che scuote la Francia. Un un unicum nella storia del Paese, che adesso fa i conti con quello che appare per tanti osservatori uno scenario “all’italiana”. Mai si era vista un parlamento così disintegrato e un partito presidenziale così debole e incapace di esprimere non solo una maggioranza assoluta (precedenti in tal senso ci sono) ma nemmeno relativa o di una sana coabitazione in grado di portare avanti il programma di Emmanuel Macron. I negoziati saranno difficili, i partiti più affini al capo dell’Eliseo deboli e indecisi, e nel frattempo, sull’Assemblea Nazionale sono piovuti in massa i deputati dei due partiti estremi: Rassemblement National di Marine Le Pen e il Nupes (socialisti, Verdi, comunisti, e in generale tutti gli “insoumises”) di Jean-Luc Mélenchon.
Un diluvio di voti (e di seggi) che sorprende fino a un certo punto. Perché se è vero che si tratta di una frattura degli schemi politici francesi, è un’evoluzione che non può leggere come un fulmine a ciel sereno se si ragiona su alcuni elementi che da anni caratterizzano la politica d’Oltralpe. E che si erano visti chiaramente già alle presidenziali di quest’anno, soprattutto al primo turno. Macron aveva vinto, si, ma non brillato. Destra e sinistra radicali avevano confermato una netta ascesa nei consensi. E tutto faceva intendere che alle legislative, con un Macron indebolito e un governo non partito col piede giusto, non ci sarebbe stato alcun cambiamento di rotta.
Molti osservatori leggono questo voto del 2022 come la conferma del tramonto di un sistema elettorale che da tempo ha dimostrato delle difficoltà di sopravvivenza: l’ex ministre Aurélie Filippetti, al Corriere della Sera, ha parlato di un ciclo finito, ma è chiaro che non può essere ritenuto tale solo perché non adatto a sbarrare la strada agli estremi. Inoltre, a ben vedere la presidenza Macron era già stata, paradossalmente, il primo campanello d’allarme di quello che stava accadendo nel Paese. Il presidente era stato molto bravo, nel primo mandato, a incanalare il malcontento moderato di socialisti e repubblicani indirizzando quel voto verso il suo partito di centro. Una resistenza agli estremismi che però aveva condannato i due movimenti che per decenni avevano costituito l’architrave del sistema democratico transalpino. Gollisti e socialisti, travolti dal macronismo, erano di fatto stati cancellati come partiti a vocazione maggioritaria. Addirittura il partito di centrosinistra, che ha avuto un così grande ruolo nella repubblica francese, si è ritrovato a veleggiare su percentuali irrilevanti. In definitiva, la tradizione politica di Parigi appariva già fortemente compromessa nel momento in cui Macron aveva infranto gli schemi e raccolto i voti dei delusi di centrodestra e centrosinistra.
Se Macron è stato indubbiamente bravo a prendere per mano questo malcontento, ha d’altro canto commesso alcuni errori di calcolo di non poco conto non dimostrando di sapere ampliare né rafforzare la sua posizione. Il capo dello Stato non è mai riuscito a togliersi l’immagine di presidente “delle élite”. E specialmente nei primi anni di mandato, il capo dell’Eliseo ha intrapreso una rotta totalmente disallineata rispetto alle masse popolari meno inclini al voto moderato. Inoltre, anche per compiacere le parti più a “destra” e più a “sinistra” del suo elettorato, di fatto ha ogni volta scontentato i segmenti opposti, generando delusione e sgretolando il consenso.
Un altro errore però essere stato, come spiega da Stefano Martinetti su La Stampa, quello di credere che la sinistra fosse sparita in quanto sparito il Partito socialista. Invece, Mélenchon ha saputo costruire un cartello di voti in cui sono confluite moltissime anime della “gauche” che non si è mai riconosciuta in Macron o che ne è rimasta delusa. Così, quell’universo composto da verdi, comunisti, sinistra radicale, socialisti e altre sigle si è compattato intorno a una figura sicuramente più carismatica e che ha battuto su tasti da sempre cari a buona parte dell’opinione pubblica francese, non solo di sinistra, e che il capo dell’Eliseo non poteva certamente fare propri.
D’altro canto, guardando verso destra, un errore appare rilevante: la riduzione dei voti per i gollisti, ora rappresentati dai Repubblicani, non è stata bilanciata da un Macron più “di destra”, ma da un mix di astensione e di corsa verso una Le Pen ormai sdoganata. Il capo dell’Eliseo ha fallito sui temi in cui l’elettorato di destra appariva più sensibile, e d’altra parte, lo spauracchio del fascismo e del filorussismo non ha evidentemente più attecchito come freno verso il Rassemblement National. Per le presidenziali ha avuto ancora effetto il richiamo al voto costituzionale contro un presidente della destra più radicale, ma per le legislative non si è percepito questo pericolo.
Un altro elemento su cui riflettere è poi il dato dell’astensione. Le stime del ministero dell’Interno francese indicano un tasso di astensione al secondo turno pari al 53,77%. Più della metà degli elettori francesi non sono andati a votare, confermando un trend palesato già alle legislative del 2017. Con numeri così alti di persone che hanno preferito non esprimere la propria preferenza, il rischio del caos e di un aumento, in percentuale, dei voti più radicali e “irreggimentati” era possibile. Ma è d’altro canto anche vero che questo non si era visto nella tornata precedente, dove pure l’astensione c’era stata ma aveva incornato il partito macroniano. Segno che in ogni caso per il capo dello Stato si tratta di un tonfo senza alibi, reso ancora più difficile in un momento in cui la Francia, particolarmente radicalizzata, ha mostrato di ribollire su diversi temi.