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È il 12 settembre scorso e Benjamin Netanyahu, attorniato dal suo staff, si trova all’interno di un celebre hotel di Sochi. Da più di due ore sta attendendo l’arrivo di Vladimir Putin, ma del presidente russo non c’è alcuna traccia. È in ritardo – almeno così dicono – dal suo viaggio in Daghestan e tornerà a breve. Le lancette ticchettano il tempo che passa e a tutti (o quasi) appare chiaro che quello che doveva essere un incontro strategico in vista delle elezioni del prossimo 17 settembre si sta per rivelare un flop tremendo. Passa un’altra ora e, finalmente, compare un Putin in incredibile ritardo.

In Russia – come affermato da Avigdor Lieberman, leader del partito Yisrael Beytenu – nulla accade per caso. “Tutto è pianificato nei minimi dettagli. Quando tengono il primo ministro israeliano in una sala d’attesa per quasi tre ore non è un caso”, ha affermato lo stesso Lieberman, di origine moldava e il cui movimento rappresenta l’incubatore principale del consenso degli immigrati russofoni nello Stato ebraico. Alla luce di quest’affermazione, il ritardo di Putin assume un significato più profondo, come testimonia anche la ricostruzione fornita dal Times of Israel.

Durante il suo incontro con Netanyahu, infatti, il leader russo non avrebbe mai accennato ai suoi rapporti con Bibi e, anzi, avrebbe detto: “La Russia si preoccupa molto di chi sarà eletto alla Knesset e spero che chiunque vi entri continui sulla strada dei rapporti bilaterali tra i Paesi e rafforzi le relazioni tra i due”. Come dire: non è detto che il prossimo 17 settembre vincerà Netanyahu e, soprattutto, che Mosca è disposta a parlare con tutti pur di preservare i propri interessi strategici e i propri alleati. A partire dalla Siria. Ed è qui che bisogna andare per comprendere come è nata la frattura tra i due leader politici.

Un triangolo pericoloso

Bashar al Assad ha vinto la guerra in Siria. Non lo ha fatto da solo, ma grazie soprattutto all’intervento di Mosca e di Teheran, che ha favorito l’arrivo di Hezbollah e Pasdaran. Israele, però, non ha mai tollerato la presenza di truppe sciite poco distanti dai propri confini e, per questo, ha compiuto negli ultimi anni oltre cento raid contro postazioni legate, in maniera vera o presunta, all’Iran. Gli ultimi attacchi sono stati condotti tra la fine di agosto e l’inizio di settembre e hanno colpito non solo in Siria, ma anche in Iraq e Libano.

I raid di Israele in Siria e Libano, nell'estate 2019 (Infografica di Alberto Bellotto)
I raid di Israele in Siria e Libano, nell’estate 2019 (Infografica di Alberto Bellotto)

Le continue incursioni dello Stato ebraico, però, hanno impensierito non poco la Russia che ha più volte alzato la voce con Netanyahu, come riporta il Jerusalem Post: “Mosca ha recentemente impedito tre attacchi aerei israeliani su tre avamposti siriani e ha persino minacciato di abbattere qualsiasi jet, con i sistemi S-400 o con i caccia, che tentasse un’impresa simile”. Ma non solo. Nell’incontro dello scorso 12 settembre, Putin avrebbe infatti espresso la propria insoddisfazione “per le ultime azioni di Israele in Libano” e avrebbe rimproverato Netanyahu per “l’aggressione alla sovranità del Libano”.

L’incontro è quindi stato un “fallimento”, come lo hanno definito molti giornali israeliani, che ci consegnano l’immagine di un Netanyahu che, abbandonata la parte a lui riservata dell’aereo che lo stava riportando a casa, si accascia cercando un po’ di riposo, tra i sedili riservati ai giornalisti. Questa vale più di mille parole e mostra la debolezza di un leader che, al momento, si sente con le spalle al muro.

Quale futuro per Netanyahu (e per Israele)

Per Bibi queste elezioni sono fondamentali. In ballo non c’è solo il suo futuro politico, ma anche la sua stessa libertà dato che – come ha ricordato in un’intervista ad Avvenire il direttore di Haaretz, Aluf Benn – in caso di sconfitta (o di vittoria) “il premier verrà (o non verrà) mandato al confronto in tribunale”. Netanyahu deve quindi cercare il tutto per tutto, con dei sondaggi che non sono affatto rassicuranti e che presentano, di fatto, ancora una situazione di stallo tra Likud e Blu-Bianco, l’alleanza tra Benny Gantz e Yair Lapid, nata per scardinare il potere decennale di Bibi.

Gli ultimi sondaggi sulle elezioni di Israele che si terranno il 17 settembre 2019 (Infografica di Alberto Bellotto)
Gli ultimi sondaggi sulle elezioni di Israele che si terranno il 17 settembre 2019 (Infografica di Alberto Bellotto)

A fare la differenza potranno dunque essere i partiti di destra, in particolare il già citato Yisrael Beytenu di Lieberman, e Otzma Yehudit, guidato da Ben Gvir. Per la prima volta, infatti, questo partito di forte stampo kahanista potrebbe superare la soglia di sbarramento ed entrare in parlamento con quattro seggi. Questo fatto rappresenta un evento di vera e propria rottura se – come alcuni ipotizzano, smentiti però dal Likud – verrà dato un ministero a Gvir, leader di un partito fortemente anti arabo e razzista che chiede l’annessione della Cisgiordania e l’ampliamento dei confini di Israele.

Un’apertura di Netanyahu ai partiti di ultradestra come Otzma Yehudit permetterà forse a Bibi di mantenere il potere e salvarsi la pelle. Ma sposterebbe molto il baricentro politico di Israele. Con risultati imprevedibili.

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