Abbandonati i toni da appoggio senza se e senza ma, nelle ultime settimane qualcosa stona nel rapporto tra Washington e Kiev. “Washington” non è solo sinonimo di “Joe Biden” e più di qualcuno in America suggerisce ormai una poderosa frenata al sostegno incondizionato a Kiev, anche a costo di puntare il dito sulla condotta ucraina.

Washington bacchetta Kiev

Partiamo dall’evento più recente, il sabotaggio del ponte di Kerch. “Sono stati i servizi di intelligence ucraini a orchestrare l’esplosione al ponte in Crimea”: così il New York Times cita un funzionario del governo di Kiev. Secondo la fonte, rimasta anonima a causa del divieto del governo di parlare dell’esplosione, lo spionaggio di Kiev avrebbe orchestrato l’attacco, utilizzando un camion-bomba guidato attraverso il ponte. La domanda è: perché uno dei principali quotidiani degli Stati Uniti d’America sbatte in prima pagina la presunta colpevolezza ucraina nell’operazione, trincerandosi dietro una fonte anonima?

Una mossa simile aveva riguardato, pochi giorni fa, l’attentato a Daria Dugina. Il 5 ottobre sempre il New York Times riportava, secondo le agenzie di intelligence statunitensi, che l’attentato del 23 agosto avrebbe ricevuto l’autorizzazione di alcuni elementi del governo ucraino. Non solo. Il quotidiano americano lasciava trapelare una certa acredine e alcune falle nella comunicazione con Kiev, precisando che “gli Stati Uniti non hanno preso parte all’attacco, né fornendo informazioni né altra assistenza” tantomeno “erano a conoscenza dell’operazione in anticipo”. Le affermazioni si fanno ancora più scivolose, aggiungendo che gli Stati Uniti “si sarebbero opposti all’omicidio se fossero stati consultati” e che in seguito, hanno perfino ammonito gli ucraini per l’assassinio.

Gli Usa frenano sugli Atacams

Anche sull’invio delle armi, la Casa Bianca frena. L’Ucraina ha chiesto l’invio dei missili a lungo raggio strategici (gli Atacams) per rafforzare la controffensiva. Si tratta di sistemi missilistici che possono volare a circa 200 miglia, circa quattro volte la distanza dei razzi utilizzati dai sistemi mobili Himars che gli Stati Uniti hanno iniziato a inviare in Ucraina quattro mesi fa. Nonostante la proposta, l’amministrazione Biden sostiene che l’Ucraina se la cavi benissimo con i sistemi di cui dispone attualmente. Infatti, circa due settimane fa, l’amministrazione Usa aveva annunciato il finanziamento di altri 18 Himars, portando il totale a oltre 30 sistemi di questo tipo. Il timore di fondo è che gli Atacams oltrepasserebbero una linea rossa agli occhi di Mosca, il che vedrebbe gli Stati Uniti diventare parte diretta del conflitto.

Le ipotesi sulla “prudenza” Usa

Le ragioni della prudenza di Washington sono molteplici e tradiscono certamente una divergenza di opinioni tra gli attori chiamati in causa (Dipartimenti, Casa Bianca, intelligence) aggravata da una presidenza tituba e temporeggiatrice. Le midterm si avvicinano e, sebbene la politica estera tendenzialmente non contribuisca a stravolgere i risultati elettorali americani, la Casa Bianca è molto cauta nel guidare gli Stati Uniti verso un potenziale pantano europeo. Biden ha ben altri grattacapi nelle prossime quattro settimane, dalle quali dipenderanno i prossimi due anni di presidenza. Resta pur vero che maneggiare la vicenda ucraina non è semplice per nessuno. Sebbene più di qualcuno gridi alla guerra “per procura”, gli Stati Uniti non ne hanno affatto bisogno dopo vent’anni di war on terror, due di pandemia e un’inflazione alle stelle. Ma una linea che passa per l’appoggio a Kiev senza entrare in guerra contro Mosca è quasi impossibile se sei gli Stati Uniti d’America. Nella logica di Washington, dunque, frenare gli entusiasmi di Kiev potrebbe servire a sfiammare l’ira della controparte. Ma se è davvero questo il gioco, il risultato appare due volte miserabile.

Vi è poi da dire che Kiev e Washington possiedono due livelli di pratica del warfare differenti. Per i primi la guerra è una novità nella storia recente, o almeno lo è stata fino al 2014. I secondi combattono al massimo livello di expertise da sempre. E ne padroneggiano tattica e strategia, nonché la comunicazione. Ma soprattutto, guardano all’altra parte dell’Atlantico con una freddezza che Kiev non può avere. Alla luce di questo, il freno a mano tirato della Casa Bianca risulta più che giustificato, almeno nella teoria.

Tra questi due “friends, not allies“, però, un difetto di comunicazione resta. Sempre il New York Times ha sottolineato più volte che gli americani sarebbero infastiditi dalla mancanza di trasparenza sui piani militari, soprattutto in territorio russo. Se il Pentagono e gli 007 americani hanno condiviso con gli ucraini informazioni sensibili sul campo di battaglia, la controparte non sempre ha comunicato le loro intenzioni ai funzionari americani.

La battaglia al Congresso

Un altro grande campo di battaglia è il Congresso Usa. Le levate di scudi a protezione di Kiev del febbraio scorso, che hanno scomodato il piano Marshall, lo sbarco in Normandia e perfino Norimberga, ora sembrano un’eco lontana. Un crescente coro di personalità di spicco ha cominciato a chiedersi: se le ricche nazioni europee, per giunta membri Nato, non hanno intenzione di finanziare adeguatamente una guerra in casa loro, perché l’America dovrebbe farlo?

ll Congresso, che maneggia i conti di Washington, alla lunga sta iniziando a diffidare delle ingenti somme a sostegno della guerra in Ucraina, che non dà segni di de-escalation. Ben presto, dunque, il blocco trasversale dei repubblicani+dixiecrats potrebbe porre il veto su questo finanziamento a oltranza. E dopo le midterm, qualora Biden ne uscisse sconfitto, sarà davvero difficile mantenere questo standard di elargizioni. Gli autori dell’ostruzionismo avranno sempre dalla loro un importante asso nella manica: rivangare il fantasma del 2% che agita la Nato e i rapporti tra le due sponde dell’Atlantico. Un’argomentazione sempre a buon mercato in grado di chiudere i rubinetti Usa all’ombrello su Kiev.

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