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Brexit è giunta a compimento e il governo conservatore del Regno Unito guidato da Boris Johnson inizia a tirare le fila per costruire il futuro apparato politico-economico del Paese. La nuova rotta di Londra dipenderà dalle scelte che il governo farà in materia di politiche industriali, sviluppo dell’industria finanziaria, accordi commerciali.

Fermo restando che il settore dell’alta finanza resterà centrale nell’economia britannica post-Brexit, per Boris Johnson e il suo esecutivo si pone il problema di mantenere coeso il Paese e rafforzare le prospettive delle sue parti più vulnerabili, guidate da quell’Inghilterra settentrionale deindustrializzata, impoverita e sfiduciata, motore col suo voto del successo del “Leave” nel 2016 e del trionfo conservatore alle elezioni generali di dicembre.

Un settore decisivo per capire come si comporterà il Regno Unito nei prossimi anni sarà quello automobilistico. Per la sua dipendenza dalle catene del valore globali, per la grande massa di capitale e lavoro messo in moto e per il suo peso sul Pil e l’indotto dei Paesi in cui si sviluppa l’automotive è tradizionalmente ritenuto il “termometro” dello sviluppo industriale.

Il Regno Unito si trova oggi perfettamente inserito nel mercato globale dell’auto, in quanto con un’esportazione annua di un milione di unità e un’importazione di due milioni di veicoli si trova ai vertici delle classifiche in entrambi i versanti del commercio nel settore.

Per il Regno Unito può essere reputato un successo il fatto di non aver conosciuto una riduzione della presenza del settore automobilistico nell’imminenza della Brexit. Londra è ritenuta dai produttori una fondamentale piattaforma finanziaria e il Paese è dotato di competenze industriali notevoli nel settore. Il Financial Times si è recentemente interrogato sulla capacità del Regno Unito di riorientare l’industria in funzione degli scenari che potrebbero crearsi: sia che si tratti di un ritorno delle tariffe doganali che della necessità di creare posti di lavoro e produzione, la soluzione più plausibile appare un incentivo al riorientamento della produzione verso il mercato nazionale.

Il quotidiano della City ha infatti riportato che piani di questo tipo sono già stati messi in campo da Nissan, pronta a raddoppiare la produzione in terra britannica in caso di ritorno a dazi doganali regolamentati dal Wto tra Regno Unito e Ue. “I dirigenti del settore hanno più volte avvertito che impianti esposti su un solo mercato di media grandezza affrontano rischi nel caso in cui la produzione sia rivolta a un solo mercato”, annota il Ft, aggiungendo però che per Londra l’obiettivo non sarebbe garantire l’autarchia produttiva di un settore che, in ogni caso, rimarrà fortemente ancorato al commercio globale di semilavorati e componenti, ma piuttosto amplificare la capacità dell’industria inglese di fungere da piattaforma di assemblaggio di determinati modelli.

Un obiettivo realistico potrebbe essere il raggiungimento di quote simili a quelle degli Stati Uniti, dove “solo metà dei veicoli commercializzati sono importati”. Prospettiva tutt’altro che utopica se il governo inglese saprà mettere in campo capacità gestionali tali da permettere un effettivo aumento degli investimenti nel Paese. E se la destinazione degli impianti futuri dovrà essere la regione deindustrializzata dell’Inghilterra del Nord, il governo Johnson dovrà investire in lavoro e infrastrutture per rafforzare il mercato interno. La scelta di aumentare il salario minimo con un balzo in avanti mai conosciuto in precedenza e di nazionalizzare Northern Rail va proprio in questa direzione: ma per consolidare un rilancio dell’industria britannica ci vorranno anni, specie considerati i tempi necessari a chiarire il futuro posizionamento commerciale di Londra nel mondo.

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