Di recente l’Ecofin, il forum dei ministri economici dell’Unione Europea, ha su mandato della Commissione aggiornato la lista nera dei paradisi fiscali accusati da Bruxelles di guadagnare sfruttando la leva del dumping e dell’occultazione fiscale.
Ai cinque Paesi già presenti (le Samoa americane, Guam, Samoa, Trinidad e Tobago e le Isole Vergini) si sono aggiunti, riporta il Corriere della Sera, “Aruba, Barbados, Belize, le Bermuda, Dominica, Fiji, Isole Marshall, Oman, Emirati Arabi e Vanuatu. Tutte giurisdizioni che non hanno attuato gli impegni annunciati entro la scadenza data dalla Ue”, basati sui principi di trasparenza fiscale, buona governance e attività economica reale.
“Altri 34 Paesi restano sulla lista «grigia» per essere monitorati: tra questi le isole Cayman, Turchia, Svizzera, Capo Verde, Marocco, Montenegro. Mentre 25 sono stati rimossi, come Taiwan, Macao, Malesia, San Marino. Invece dalla lista grigia, cioè quella dei Paesi sotto monitoraggio, scompaiono ben 25 Paesi, tra cui Andorra, Jersey e Panama, sebbene al centro di scandali ancora recenti”.
Oxfam all’attacco
L’impegno nello scrutinio dei paradisi fiscali stranieri è stato notevole ma incompleto, ad opera di numerosi osservatori. Tra i maggiori critici dell’azione dell’Ecofin si segnala Oxfam, Ong attiva nella ricerca su problematiche di matrice economica, che ha accusato Bruxelles di eccessiva tolleranza verso molti Paesi colpiti da grandi scandali fiscali come Bermuda, Hong Kong, Bahamas, le Isole Vergini, le Cayman, l’Isola di Man e il già citato Panama e, soprattutto, di essere stata eccessivamente lassista verso le sue problematiche interne.
Tramite un comunicato ufficiale, Oxfam ha denunciato infatti il lassismo europeo: “Per rimanere leader nella lotta all’evasione, l’Unione Europea dovrebbe prima mettere in ordine la sua casa invece di guardare al fisco del resto del mondo e trascurare i paradisi all’interno dei propri confini”.
Sette Paesi incoerenti
Il tema dei paradisi fiscali reali o latenti che albergano all’interno dell’Unione è da tempo oggetto di discussione. Secondo un rapporto pubblicato proprio in questi giorni e commissionato dalla Tax3, la Commissione speciale del Parlamento europeo per i crimini fiscali, l’evasione e l’ elusione fiscale, sono ben sette i Paesi dell’ Unione europea che presentano i “tratti distintivi di un paradiso fiscale e promuovono una politica fiscale aggressiva”.
Di questo esclusivo club fanno parte Belgio, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Cipro e Ungheria. Nazioni che attirano capitali stranieri con una politica fiscale estremamente generosa nei confronti di multinazionali (Irlanda) o Pmi (Ungheria) o con l’opacità di regole che dovrebbero invece favorire la lotta all’elusione.
Come si costruisce un paradiso fiscale
“Le pratiche messe in atto da questi Stati europei sono note da tempo. Approfittano dell’autonomia fiscale ancora esistente all’interno della Ue, nonostante da tempo ci sia ormai una moneta unica, per abbassare le tasse e attirare entro i propri confini la sede legale di molte società straniere, che ovviamente sono felici di pagare meno imposte”, si legge su Tiscali. “Il risultato di questi meccanismi sono ovviamente negativi per le casse pubbliche (e dunque per i cittadini) degli Stati europei a fiscalità più alta con gravi ripercussioni sulla qualità del welfare. Tra i paesi più penalizzati ci sono quelli di maggiori dimensioni ovvero Germania, Francia, Italia e Spagna. Secondo una stima contenuta nel rapporto dell’Oxfam, nel 2015 i quattro Paesi elencati sopra hanno perso ben 35,1 miliardi di euro di gettito a causa dello spostamento di flussi finanziari verso i paradisi fiscali intra Ue”.
Il lassismo della Commissione Europea verso i paradisi fiscali europei si spiega con un solo nome: quello di Jean-Claude Juncker. Nella sua lunga carriera da premier del Lussemburgo Juncker ha lavorato alacremente per favorire la trasformazione del Paese in un grande attrattore di capitali erratici. Come chiedere ora trasparenza da chi dall’elusione delle regole ha tratto la sua fortuna politica?
Olanda, il paradiso fiscale per eccellenza
Ma l’incoerenza più grande è quella dimostrata dai Paesi Bassi. Il governo di Mark Rutte, cultore dell’austerità più rigorosa e accusatore numero uno del governo italiano nella fase di dibattito sulla sua manovra economica, non ha avuto remore a modellare un regime fiscale tale da permettere l’esistenza di un sistema di esenzioni per gli utili di multinazionali straniere operanti nel Paese, permettendo loro di non essere colpite dalla normale aliquota corporate del 25%. E, come ha dovuto di recente ammettere a denti stretti il viceministro delle Finanze Menno Snel, l’Olanda nel 2016 ha visto transitare per semplici motivazioni fiscali nel suo territorio 4.500 miliardi di euro, più di cinque volte il valore del suo Pil, ma ha potuto estrarre da essi ricavi fiscali per soli 200 miliardi, meno del 5% del totale.
Il governo ha dovuto anche rendere noto che nel Paese ci sono circa “15mila società “bucalettere”, vale a dire cassette postali dietro le quali la maggior parte delle volte non esiste una vera e propria struttura organizzata né tantomeno unità produttive. In sostanza, dividendi, royalties e diritti intellettuali – grazie ad un fisco amico delle società e delle multinazionali – vengono “blindati” in Olanda invece che nei singoli Paesi europei”, hanno scritto sul Sole 24 Ore Angelo Mincuzzi e Roberto Galullo, ripresi da Dagospia. L’Olanda è non solo uno dei maggiori paradisi fiscali latenti del Vecchio Continente, ma anche uno dei centri dell’elusione fiscale globale. Austeri in tutto, anche nel richiedere alle grandi imprese di pagare il dovuto. E come tutto questo possa concorrere a cementare la coesione di un’Unione Europea coerente sul profilo economico, francamente, non si riesce a comprenderlo.