Quando parliamo di guerra commerciale viene automatico pensare alla Trade War sferrata dagli Stati Uniti di Donald Trump nei confronti della Cina. Eppure, da oltre un anno, è in corso un’altra guerra commerciale, di minor portata, ma altrettanto importante sia dal punto di vista economico che geopolitico. Stiamo parlando del braccio di ferro tra la Cina e l’Australia. L’isola, pur avendo influenti amici occidentali e facendo parte del Quad, deve fare i conti con una spada di Damocle non da poco. Due terzi del suo interscambio si svolgono con l’Asia, e la Cina è destinataria, da sola, del 30% dell’export nazionale.

La strategia australiana è ottima, visto che l’economia del Paese – fatta eccezione della battuta d’arresto causata dal Covid – cresce dal 1991. Ma l’ eccessiva dipendenza da Pechino potrebbe creare non pochi problemi a Canberra. Recentemente è accaduto proprio questo: il governo cinese ha “punito” la controparte australiana smettendo di esportare prodotti di vario genere. Risultato? La mossa ha causato ingenti danni economici all’Australia. Come se non bastasse, sostengono diversi media internazionali, il Dragone avrebbe imposto tariffe punitive sulle merci australiane a mò di rappresaglia. Oggetto della disputa: un’indagine indipendente sull’epidemia di Covid-19 che non sarebbe stata particolarmente gradita da Pechino.

La reazione australiana

L’Australia ha inevitabilmente accusato il colpo, anche se bisogna riconoscere che Canberra non si è piegata del tutto. Anzi, il governo australiano ha reagito al confronto provocando un’escalation delle tensioni commerciali con la quasi prima economia del mondo. Nonostante il Dragone abbia adottato misure aggressive e sospeso alcune attività commerciali in loco, a distanza di un anno l’Australia non solo ha limitato i danni, ma ha pure raccolto frutti inaspettati. Le sue esportazioni in Cina, infatti, al netto dell’accesa diatriba, lo scorso aprile hanno fatto registrare un valore aggiunto di 591 milioni di dollari australiani, facendo segnare un incoraggiante +4%.

Scendendo nel dettaglio, Pechino aveva imposto tariffe fino all’80% su una serie di prodotti strategici tra cui carbone, orzo, carne, aragoste e vino. La situazione è ulteriormente peggiorata dopo che l’Australia ha toccato questioni delicate come la violazione dei diritti umani a Hong Kong, nello Xinjiang e in Tibet. A quel punto Canberra ha pensato bene di cercare mercati alternativi per diversificare le proprie esportazioni, così da neutralizzare il boicottaggio cinese.

Ferro, carbone e orzo: l’autogol della Cina

Morale della favola: al netto delle citate restrizioni commerciali, la Cina è stata costretta ad acquistare minerali di ferro e gas naturale liquefatto (GNL ) dall’Australia a tassi più elevati. Tutto ciò ha reso la spesa cinese per le importazioni australiane la più alta di sempre. Non solo: bisogna anche citare la Belt and Road Initiative. A quanto pare i cinesi avrebbero sospeso un accordo chiave relativo al mastodontico progetto infrastrutturale dopo che l’Australia avrebbe, a sua volta, rinunciato a partecipare alla Nuova Via della Seta.

In attesa di capire come (e se) si risolverà la faccenda, è altrettanto importante sottolineare come Canberra abbia visto le proprie casse riempirsi per via dell’aumento della domanda di ferro dalla Cina, con i prezzi saliti alle stelle. Le tariffe per una tonnellata di minerale di ferro hanno infatti raggiunto la cifra di 193,85 dollari americani, superando il precedente prezzo record di 193 dollari nel 2011. Per quanto riguarda il carbone, anche se i cinesi hanno ridotto le importazioni australiane del 30%, Canberra è riuscita a sopravvivere deviando le sue forniture verso altri mercati, in particolare l’India, secondo importatore. Le importazioni dell’India hanno visto un enorme aumento del 450%, arrivando a 1,87 milioni di tonnellate nel dicembre 2020 su base annua.

La Cina, d’altra parte, ha finito per pagare il doppio della quantità di carbone russo dello stesso valore calorico di quello estratto in Australia. Dulcis in fundo, Pechino ha imposto tariffe dell’80,5% sull’orzo. Anche in questo caso l’Australia ha iniziato a esplorare nuovi mercati e li ha trovati in Arabia Saudita e Messico. In generale, qualunque sia la riduzione avvenuta nelle esportazioni di orzo, vino, aragoste, carbone e altri prodotti, il maggiore acquisto di minerale di ferro e GNL a prezzi più alti ha più che compensato le perdite australiane dovute alle sanzioni cinesi.

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