MOSUL OVEST – Al mattino verso le 7 ci accorgiamo del fumo scuro che si alza fuori dalla finestra. Tutti dormono sul pavimento, dopo una notte di scontri. Il tenente Hassan Kazhim Faraj è attaccato alla radio, ma non si accorge di niente. “Cos’è questo fumo?”, chiediamo all’ufficiale, che interpella le vedette sui tetti. “Daesh (Stato islamico nda) ha dato fuoco alla casa davanti. Forse per non farsi vedere dai droni” rispondono. Un attimo dopo inizia l’inferno a colpi di bombe a mano, raffiche incessanti e razzi Rpg. I seguaci del Califfo attaccano il nostro piccolo forte Apache, un avamposto di prima linea della polizia federale ad un passo dalla città vecchia. Tutti scattano in piedi per imbracciare le armi, infilarsi gli anfibi, il giubbotto antiproiettile e l’elmetto. Il maggiore Abd Sajid Raed, comandante del pugno di uomini del 5° battaglione ordina di distribuire le bombe a mano e di piazzare i mortai. Dai quattro edifici che controlla con il suo reparto arrivano notizie allarmanti: “Sono davanti a noi, ci lanciano le granate. Li abbiamo visti dietro l’angolo”. Assieme ai giovani poliziotti delle truppe d’assalto cerchiamo di raggiungere il tetto spazzato dalle raffiche. Impossibile uscire per rispondere al fuoco. Da una finestrella alle nostre spalle un cecchino infila un proiettile che si conficca nel muro poco sopra le nostre teste.
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