Il palazzo è appena stato centrato dai razzi Grad. Gli ultimi piani anneriti dalle fiamme e sventrati dalle esplosioni eruttano il fumo grigio delle colonne che abbiamo visto, alte nel cielo, avvicinandoci a Popasna. Nessun giornalista è mai arrivato “all’inferno, come a Stalingrado, dove non ricordo più il silenzio perché i russi bombardano ogni giorno, di continuo” racconta un sergente di ferro ucraino. A bordo alla macchina blindata in maniera artigianale, ma efficace, del colonnello Roman, entriamo nella piccola Mariupol, che prima dell’invasione contava centomila abitanti. Il paesaggio è spettrale: le abitazioni sono tutte intaccate dalla furia delle bombe e dei combattimenti. Nessuna anima viva in giro. La strada asfaltata è disseminata di crateri, schegge e resti di razzi. L’unica possibilità per restare vivi è attraversare Popasna a tutta velocità. Una scheggia buca la ruota posteriore e i due soldati di scorta sbiancano come lenzuoli. Il colonnello ordina di proseguire fino al riparo di un piccolo ponte ferroviario. Le granate continuano a piovere da tute le parti. La casa bassa subito dopo il ponte non ha più il tetto. Quando arriva il sibilo vuole dire che il colpo è maledettamente vicino. Il colonnello urla “granata in arrivo”. L’unico riparo possibile è accucciarsi dietro la portiera blindata. Lo stesso fa il militare che armeggia con la ruota, velocissimo come se fosse un cambio gomme ai box della Formula uno. La corsa pazza in mezzo alla piccola Mariupol, occupata al 40% dai russi, prosegue fino ad un primo avamposto in mezzo alle macerie. Il soldato di scorta al mio fianco apre la portiera blindata e ordina: “Seguimi e corri senza mai fermarti”. Con il cuore in gola entriamo in una postazione tenuta da alcuni “zombie” che ci guardano come marziani. La sosta dura poco mentre partono raffiche di Grad dai lanciarazzi multipli e tuona il cannone.
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