Germania e Israele: dalla Shoah all’alleanza

L’ingresso del Museo Ebraico di Berlino ricorda quello dell’aeroporto di Parigiqualche giorno dopo gli attentati del Bataclan. Ogni movimento è controllato. Diverse pattuglie della polizia vigilano all’entrata e gli agenti seguono con lo sguardo chiunque varchi l’uscio. Appena entrati si viene perquisiti dal personale di sicurezza, che invita a depositare giacche, zaini e cinture nel metal detector. Una volta superati i controlli inizia un faticoso percorso psico-fisico. Tutto il tragitto è in leggera ma costante salita, che genera nel visitatore una lieve ma interminabile sensazione di fatica. Il percorso è labirintico. Zigzagando per stretti corridoi che cambiano continuamente direzione si prova uno strano senso di disorientamento. Dalle mura che stringono il passaggio si è osservati dai tristi visi di bambini che indossano pigiami a righe. Le stelle di David sono ben in vista. Sulle pareti sono scritti i nomi delle città, dei paesi e dei villaggi da cui e verso cui almeno un ebreo tedesco dovette fuggire. L’angoscioso percorso per arrivare all’uscita attraversa anche uno dei pochi passaggi in piano. Un corridoio ricoperto di pezzi di metallo tondi, su ognuno dei quali è rappresentato il volto di una persona con la bocca spalancata. Ogni passo che li calpesta genera un acuto rumore metallico, un urlo che rimbomba nello spazio chiuso. Il museo è studiato apposta per generare un senso di oppressione. Situati nel cuore della vecchia Berlino, zona un tempo in stile classico e oggi ricresciuta moderna dopo i bombardamenti alleati che la hanno rasa al suolo durante la guerra, i luoghi della memoria ebraica rivestono una funzione centrale nella sua ricostruzione. Come nella rielaborazione dell’identità tedesca. 

Montaggio di Roberto Di Matteo