Non se ne parla, ma esistono, almeno secondo la fotografia scattata dall’ultimo rapporto dell’Institute for Strategic Dialogue (ISD), con sede a Londra, che s’intitola “Shooting in the right direction” e racconta il fenomeno dei foreign fighters anti-Isis.Impegnati in Siria ed in Iraq, i miliziani che combattono i jihadisti sono parte di realtà sommersa che – secondo i tre ricercatori che hanno firmato lo studio – interessa un totale di 26 Paesi a maggioranza occidentali, con gli Stati Uniti in testa (38%), seguiti da: Regno Unito (14%), Germania (8%), Francia (6%), Svezia (6%) e Canada (5%).A primeggiare nella classifica ci sono gli oltre 114 foreign fighters a stelle e strisce, ovvero, il 46% dei circa 250 cittadini americani che hanno lasciato gli Stati Uniti per raggiungere la polveriera mediorientale.Le milizie volontarie, dalla guerra civile spagnola degli anni Trenta, passando per quella del Golfo e arrivando sino ai conflitti più recenti, come quello balcanico e ceceno, non sono certo una novità. Così, anche in Siria ed Iraq.La sovraesposizione mediatica di questo fenomeno inizia il 19 agosto del 2014, con l’esecuzione del foto reporter James Wright “Jim” Foley, primo cittadino statunitense ad esser ufficialmente giustiziato all’interno dell’autoproclamato Stato islamico.Alle spalle di Foley, la cui fine viene documentata e rilasciata su YouTube con un video che s’intitola “Messaggio all’America”, c’è Mohamed Emzawi. Anche conosciuto come Jihadi John, il boia con l’accento inglese, nato in Kuwait ma cresciuto a Londra, svelerà la punta di un iceberg di cui di lì a poco si delineerà la preoccupante dimensione.Come rivela uno studio condotto dal Soufan Group, la rete capillare di reclutamento con cui gli adescatori del Califfo si muovono, dal cyberspazio alle moschee di mezzo mondo, è riuscita ad attrarre dal 2011 ad oggi nell’orbita nera circa 27mila foreign fighters provenienti da 81 paesi.Ma a gravitare dallo scacchiere mediorientale non ci sono solo personaggi come Jihadi John e le migliaia di fanatici che in questi anni si sono uniti alle bandiere nere. Proprio su questo aspetto si è focalizzato il team di ricercatori, composto da Henry Tuck, Tanya Silverman, Candace Smalley, che – nell’introduzione allo studio – chiarisce lo scopo del lavoro: “questo rapporto intende gettare uno sguardo su un gruppo di combattenti, esaminando chi sono, per cosa si sono messi in gioco e perché hanno deciso di farlo volontariamente”.“Shooting in the right direction”, pubblicato lo scorso martedì, classifica nazionalità e motivazione dei combattenti stranieri che, dal 2011 alla fine del 2015, hanno scelto di contrastare non solo i tagliagole di Baghdadi, ma anche le altre sigle che compongono l’ampia e variegata galassia del fondamentalismo islamico.Tra gli “eroi anti-Isis” e gli omologhi che hanno giurato fedeltà e obbedienza al Califfo esiste una differenza anagrafica. Mentre i secondi sono per lo più under 40, i loro antagonisti hanno un’età compresa tra i 14 anni ed i 67 anni e un’età media che ISD colloca intorno ai 32 anni.La sorpresa riguarda anche il gentil sesso. Donne e ragazze rappresentano una proporzione senza precedenti nei gruppi islamisti e, proprio a loro, Baghdadi dedica una brigata: la famigerata Al Khansa – dal nome della poetessa preislamica cara a Maometto – incaricata di sorvegliare e punire le altre donne. Dal lato opposto della barricata, seppur in percentuale drasticamente inferiore rispetto alle “spose del Jihad”, si trovano alcune decine di volontarie.Matthew VanDyke, reclutatore di snipers americani capaci di addestrare le milizie assire nel nord dell’Iraq, ha spiegato a Voice of America che la maggior parte dei foreign fighters si sono uniti alle unità di difesa siro-curde YPG (31%) e alle forze Peshmerga iracheno-curde (22%). Per VanDyke, anche in questo caso il movente sembra esser legato alla ricerca di un’identità, “potrebbe esserci una mancanza di appartenenza, il desiderio di avere uno scopo. Queste persone sentono che non stanno facendo abbastanza nella loro vita”.
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