Ha registrato il più alto numero di combattenti stranieri nel Daesh pro capite dell’Europa occidentale. È stato il primo paese nella storia d’Europa (e del mondo) a sottoporre un’intera città, la sua capitale, ad un lockdown per terrorismo durato quasi una settimana. Viene descritto periodicamente, a causa delle gravi problematiche di terrorismo islamista, multiculturalismo fallimentare e crimine organizzato, come uno “stato fallito”.

È stato il primo paese d’Europa a essere teatro di attentati terroristici di matrice islamista. È il paese dell’Unione Europea che concentra la stragrande maggioranza delle sentenze annuali per reati di terrorismo – 100 sulle 340 pronunciate nei 27 nel corso del 2021, ovvero quasi una su tre. È il paese le cui periferie hanno dato i natali ad alcuni dei più importanti jihadisti del Duemila, come Salah Abdeslam, e nelle cui strade si intrecciano gli interessi e i destini di mafie globali in affari con o vicine all’Islam radicale, come quella marocchina e cecena.

Questo paese, fragile e contradditorio, dove il jihadismo ha lasciato a terra più di 50 morti e oltre 350 feriti dal 1979 al 2021, è il Belgio, cuore pulsante del progetto europeo e storica base operativa dell’Internazionale jihadista.

Una storia che inizia da lontano

L’epopea del terrorismo islamista in Belgio è una delle più longeve d’Europa. La si potrebbe fare iniziare nel 1980-81, biennio durante il quale delle ali islamisteggianti, ossia né laiche né di sinistra, dei gruppi armati palestinesi consumarono due attacchi ad Anversa contro degli obiettivi civili ebraici, lasciando a terra 4 morti e 126 feriti. Ma i più, forse dimentichi delle tragedie di Anversa, ne riconducono la genesi agli anni Novanta.

Nell’ultimo decennio del Secolo breve, mentre gran parte d’Europa ignorava la ventura minaccia del terrorismo jihadista, il Belgio si ritrovava già, per ragioni demografiche – una sviluppata comunità islamica – e geografiche – la vicinanza a Paesi Bassi e Francia –, al centro di traffici illeciti e cospirazioni internazionali.

Le periferie multietniche in divenire del Belgio, in particolare quelle ai margini di Bruxelles – le aree a maggioranza turco-araba dei comuni di Molenbeek e Schaarbeek –, erano il porto sicuro di ogni terrorista. Luoghi in cui era possibile comprare un passaporto, falso o rubato, per poche centinaia di franchi – come fatto dagli assassini del generale Massoud. Terreni fertili per viandanti alla ricerca di alleanze, rifugi, armi, ma anche droga con cui finanziare la propria causa.

La fama del Belgio, di mercato nero d’Europa e di oasi protetta per narcotrafficanti, imam radicali e terroristi, avrebbe attratto i principali attori del panorama jihadista sul finire del Novecento, da Al Qaeda alla banda di Roubaix, passando per il Gruppo Islamico Armato – ivi presente sin dai primi anni Novanta e coinvolto nella pianificazione di attentati nel continente: il fallito attacco ai Mondiali di Francia ’98 –, finendo inevitabilmente con l’alimentare la loro fame di reclute.

Aiutati dalle moschee finanziate dalle petromonarchie della penisola arabica, megafoni del wahhabismo più antioccidentale e radicale, nonché dalle (pessime) condizioni di vita degli abitanti dei laboratori di integrazione diventati ghetti – 4 residenti di Molenbeek su 10 stabilmente disoccupati; il tasso più alto del Belgio –, i cacciatori di talenti dell’Internazionale jihadista avrebbero avuto un gioco relativamente facile.

Molenbeek, la centrale del jihadismo europeo

Un piccolo ma grande evento che a posteriori è stato rivalutato e considerato come il preludio degli attentati dell’11/9, ovvero l’assassinio del generale Massoud, avrebbe portato gli investigatori a puntare le loro lenti su Molenbeek. Molenbeek, il luogo da cui provenivano i passaporti utilizzati dagli assassini di Massoud per entrare in Afghanistan. Molenbeek, il nome di un comune-comunità a maggioranza islamica di circa 100mila abitanti, schiacciati in poco meno di sei chilometri quadrati, che avrebbe tormentato gli inquirenti, e non solo del Belgio, negli anni successivi.

Due anni dopo l’11/9, mentre nei vicini Paesi Bassi esplodeva il caso Hofstad, il nome di Molenbeek compariva più volte nel processo a Nizar Trabelsi, un tunisino arrestato – e condannato – alle porte di Bruxelles per aver pianificato un attentato suicida contro la base aerea di Kleine-Brogel.

Tre anni dopo l’11/9, con l’avvio delle indagini dei servizi segreti spagnoli sugli attentati ai treni di Madrid del 2004 – 192 morti, 2057 feriti –, il nome di Molenbeek risuonava di nuovo per l’Europa. Giacché due dei terroristi coinvolti nella mattanza, Hassan el-Haski e Youssef Belhadj, erano cresciuti e si erano radicalizzati nelle strade difficili del comune.

L’assassinio del generale Massoud, la trama di Kleine-Brogel e gli attentati di Madrid, tutti accomunati da una Molenbeek connection, avrebbero dovuto incoraggiare inquirenti e autorità a disinnescare in tempo quel tubo bomba pronto a sfregiare il mondo con le sue schegge. Qualcuno, come la giornalista investigativa Hind Fraihi e l’agente sotto copertura Omar Nasiri, aveva denunciato l’estensione del radicalismo e del gangsterismo jihadista nel comune diventato ghetto, ma invano. E, di lì a breve, i frutti raccolti sarebbero stati l’esportazione di combattenti, la perdita di un’intera generazione e la ramificazione dell’odio.

Da Molenbeek a Molenbeekistan

A dieci anni di distanza da Madrid 2004, cioè a partire dal 2014, Molenbeek sarebbe tornata sotto la luce dei riflettori, stavolta di tutta Europa, per via del contributo dato alla causa dello Stato Islamico di Abu Bakr al Baghdadi. Contributo che le sarebbe valso una serie di appellativi, tra i quali “Molenbeekistan”, “focolaio radicale” (Deutsche Welle), “ghetto islamista” (Le Monde) e “rifugio di jihadisti” (Le Temps).

Il Belgio avrebbe preso atto dell’entità dei problemi di Molenbeek soltanto nell’era del Daesh. Perché culla e/o patria adottiva, tra i tanti, di Mehdi Nemmouche (Bruxelles 2014), Ayoub El Khazzani (Oignies 2015), Khaled Babbouri (Charleroi 2016), Oussama Zariouch (Bruxelles 2017). Perché armeria di Amedy Coulibaly (Parigi 2015). E perché casa, armeria e cervello dei membri-chiave del commando che seminò morte per le strade di Parigi nel novembre 2015.

Nel 2016, all’indomani degli attacchi coordinati all’aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles – motivo della messa in stato di lockdown dell’intera capitale –, un’armata di poliziotti e militari avrebbe messo a soqquadro ogni angolo di Molenbeek, la casa degli attentatori, tamponando un problema a lungo ignorato. Esito: 102 enti no profit sciolti per legami col crimine organizzato e 51 per legami con l’Islam radicale o col jihadismo, 277 traduzioni in arresto nel corso di 22.668 controlli, 72 persone in odore di terrorismo sottoposte a sorveglianza speciale, 5 moschee chiuse sulle 25 presenti nel comune – cioè una su cinque.

Il rischio di una “molenbeekizzazione” del Belgio

Molenbeek è certamente uno dei comuni più problematici dell’area di Bruxelles capitale, dove alla questione del terrorismo islamista si affianca quella della criminalità – micro e organizzata –, ma non è l’unico presente nella rosa nera. Perché simili difficoltà si riscontrano, da anni, anche nei multietnici Schaerbeek – dove un pregiudicato, già sorvegliato speciale, ha ucciso un poliziotto nel novembre 2022 –, Anderlecht, Marollen, Evere, Saint-Josse-ten-Noode e Anneessens.

Il rischio di una molenbeekizzazione del Belgio è elevato. E lo è causa del fallimento del modello d’integrazione belga, che, pensato negli anni Ottanta come una via di mezzo tra multiculturalismo e assimilazionismo, non è stato capace di evitare ghettizzazione e segregazione informale, né di garantire uguali o simili opportunità di ascesa socioeconomica a tutti, portando a conseguenze perverse e indesiderate quali la proliferazione di aree ad accesso vietato, l’attecchimento dell’Islam radicale e lo scoppio di guerre della droga.

Il rischio di una molenbeekizzazione del Belgio è elevato. E lo è perché lo suggeriscono i numeri sulla sovrappresentazione dei musulmani nelle prigioni – sarebbero il 6% della popolazione nazionale, ma il 20-30% di quella carceraria –, sull’esclusione dei cittadini di origine extracomunitaria dal mercato del lavoro – tasso di disoccupazione stabile al 45% –, che è oro per i reclutatori di gruppi criminali e terroristici, e sui sorvegliati speciali per jihadismo presenti nel Database comune dei servizi segreti – 645, contro i 627 della Germania (dati 2021).

Molenbeek è il comune che la cronaca ha reso sinonimo di terrore. In effetti, nonostante i tentativi di riqualificazione e i programmi di deradicalizzazione, continua a registrare il più alto numero di residenti in odore/accusati di terrorismo pro capite – 49 su 100.000 abitanti, a fronte di una media nazionale di 3. Ma, di nuovo, non è l’unico nell’elenco che preoccupa le autorità belghe.

Molenbeekizzazione equivale a dire capillarizzazione di radicalismo islamico e narco-banditismo, espansione dei quartieri e dei comuni sensibili, cronicizzazione di guerre civili molecolari e narco-guerre. Significa parlare del caso Anversa, divenuta la capitale europea della cocaina, ma anche di Vilvoorde, la cittadina alle porte di Bruxelles che ha esportato 28 jihadisti nel Siraq tra il 2012 e il 2014 e nella quale si trovano circa 100 persone sotto sorveglianza per terrorismo.

Chiudere moschee d’odio, espellere imam radicali e bandire la vendita di schede telefoniche senza intestatario non sarà sufficiente ad impedire la molenbeekizzazione del Belgio. Bruxelles capitale vanta il titolo di area metropolitana più multietnica del pianeta – con tre abitanti su quattro nati all’estero –, che nei prossimi decenni potrebbe essere trasferito all’intera nazione – dove, nel 2022, il 32% della popolazione aveva origini straniere –, e questo richiede(rà) una rivisitazione integrale, forse un superamento, della stessa idea di integrazione.

Il Belgio, caso eloquente di Occidente in fase di deoccidentalizzazione, non potrà affrontare la sfida della molenbeekizzazione, ovvero delle possibili compartimentazione e fratturazione della società in blocchi etnici, che elaborando un’agenda di nation rebuilding con orizzonte spaziotemporale il 2100. In gioco, oltre alla sicurezza nazionale del Belgio – che la transizione etno-demografica potrebbe rendere più vulnerabile a operazioni ibride e giochi di spie –, ci sono la reputazione e la credibilità della stessa Unione Europea, che questo paese ha scelto come sede di molte delle sue istituzioni.