Silvia Romano, la cooperante italiana sequestrata in Kenya lo scorso novembre, è ormai da un anno preciso nelle mani di gruppi islamisti che, come sospettato già in passato dagli inquirenti, l’hanno portata oltre frontiera per segregarla in Somalia. Così, dopo 365 giorni di prigionia, si torna a parlare di un “sequestro” noto, ma non abbastanza per riempire a lungo le prime pagine dei giornali. Un sequestro per cui ancora si cercando mediatori adeguati e informatori fidati – non fonti che troppo spesso si rivelano inattendibili e solo in cerca di danaro facile – per cercare di negoziarne la liberazione.

Da come viene descritta, Baidoa è una città primitiva che sembra essere rimasta ferma nel tempo. Un tempo che precede, e di molto, i giorni in cui i nostri soldati si battevano per la Somalia. Ma è questa tuttavia una delle città chiave della Somalia; il punto di partenza dal quale i nostri funzionari degli Esteri devono muovere le prime pedine per addentrarsi nelle complesse dinamiche di un paese affogato nelle lotte intestine tra signori della guerra, negli interventi di potenze straniere che non ottengono e non hanno ottenuto i risultati sperati, nel terrorismo islamista di Al Shabaab e una sorta di straziante povertà endemica che pare quasi inestirpabile. Fu proprio un commando di Shabaab infatti, “ex pirati specializzati in sequestri” che spesso operano in stati oltre frontiera per poi ritornare nelle loro roccaforti sulla costa, ha fare irruzione nella notte tra il 19 e il 20 novembre nella stanza della cooperante – accusata di proselitismo poiché insegnava preghiere cristiane ai bambini – che si era stabilita nel villaggio di Chakama, nella contea di Kilifi, per trascinarla nel bosco e usarla un giorno come “risorsa” per ottenere altro denaro con cui foraggiare la “rivoluzione”, o per chissà quale altro spregevole piano criminoso.

Per Mario Scaramella, “consulente ufficiale, giuridico e operativo, presso la Corte del South West”, impegnato da tempo per conto del nostro governo nel recupero dell’ostaggio, le tracce di Silvia Romano rischiavano e rischiano tuttora di svanire, se viene lasciato passare troppo tempo. Per questo bisogna darsi da fare, e allo stesso tempo non essere troppo rumorosi forse, troppo evidenti. Mantenere riserbo e agire nell’ombra. Per non entrare in contrasto con la “strategia del silenzio” che la Farnesina sembra aver voluto adottare per non sottoporre allo stesso rischio altri cittadini italiani che potrebbero subire lo stesso destino.

Una delle principali fonti per arrivare alla Romano è un detenuto in attesa della corte marziale, spiega Domenico Quirico, inviato per La Stampa: il suo nome di battaglia è Sufayan, ed è un membro di Al-Shabaab tra i responsabili del sequestro. È stato catturato dalle autorità somale e può rivelare, e in parte lo ha già fatto, tutti gli spostamenti della ragazza; che secondo quanto riportato partono da Chakama, per giungere nel primo luogo di prigionia, il villaggio di Saleban. Qui, infettata dalla colera o dalla malaria, la Romano sarebbe stata curata da un medico di Al-Qaeda, prima di essere trascinata dai suoi aguzzini per diversi villaggi del Jubaland e dello Shebeli. Poi a Jilib. Poi a Janale.

Ora, secondo le dichiarazioni del condannato a morte somalo e le informazioni acquisite sul campo dal nostro funzionario incaricato, sarebbe nelle mani di capo somalo che risponde al nome di battaglia di Awowe. Una sorta di “notabile” che spesso si recherebbe a Doha, in Qatar. Secondo gli inquirenti, Silvia Romano oltre ad essere un’ostaggio, sarebbe stata resa uno “scudo umano contro i bombardamenti della coalizione antiterrorismo”. Un volto da mostrare bene agli occhi elettronici dei droni armati a caccia di “bersagli” high-value, capace di bloccare automaticamente ogni ordine di fare fuoco per evitare di provocare la sua morte: e con essa il peso insostenibile di una simile vittima collaterale. Questa disonorevole tattica sarebbe una vecchia abitudine degli shebab, dicono – viene citato infatti il capo Joaad Godane che usava come scudo un ostaggio francese, agente della Dsge (il servizio segreto estero di Parigi). Mentre 35mila dollari sono già stati inviati a tre diversi sequestratori in anticipi da 15mila euro, e sono 23 gli arresti collegati al caso, una domanda sorge spontanea: se Silvia Romano viene davvero usata come “scudo” forse almeno una dell’intelligence della coalizione antiterrorismo deve averla inquadrata con i propri droni di sorveglianza – ciò vorrebbe dire che non è un segreto dove si trovi, su quali mezzi si muova o venga mossa, e dove potrebbe essere liberata se i negoziati per la sua liberazione non giungessero ad un compromesso?

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