Una nave italiana attaccata dai pirati nel Golfo del Messico. La marina che interviene per catturare i marittimi, mentre i criminali fuggono cercando di portare via il carico dell’imbarcazione.

No, non è un film: ma è quello che avvenuto alcuni giorni fa alla Remas, nave di rifornimento per le piattaforme offshore, che è stata attaccata da un commando composto da sette o otto pirati al largo di Ciudad del Carmen.

Una vicenda drammatica ma per fortuna non tragica che però ha riportato alla luce uno dei fenomeni più interessanti e per certi versi dimenticati degli ultimi anni, la rinascita della pirateria in diverse aree del mondo. Un fenomeno che si credeva chiuso nei libri di storia, di quanto i bastimenti delle flotte degli imperi coloniali e delle compagnie commerciali venivano razziate dai predoni del mare più o meno al servizio dei rivali. E che invece oggi è tornato con tutta la sua pericolosità in diverse parti del mondo. In particolare in quell’area del mondo, tra il Mar dei Caraibi e il Golfo del Messico, dove gli attacchi aumentano e così i rischi per gli armatori che operano in quegli specchi d’acqua.

Golfo del Messico

L’assalto alla Remas non è un caso isolato. Come ricordato anche da Guido Olimpio per il Corriere della Sera sono in netto aumento i casi di assalti a imbarcazioni davanti agli Stati di Campeche e Tabasco. Centinaia gli attacchi che dal 2017 sono partiti dalle coste messicane verso navi e piattaforme off-shore che operano nell’area. E questo ha avuto un sensibile aumento anche a causa della crescita delle forze dei cartelli della droga e delle organizzazioni criminali impegnate nel contrabbando del petrolio e del carburante.

Gli assalti sono in genere molto simili. Barchini, mai di dimensioni eccessivamente grandi proprio per permettere la rapidità delle manovre di assalto e abbordaggio, con a bordo pochi uomini armati di pistole o fucili, che si avvicinano alla “preda” sperando nel colpo grosso. Di solito l’obiettivo è riuscire a rubare più petrolio o carburante possibile, ma non va sottovalutato anche il possibile uso di alcune componenti delle navi colpite, spesso utili per rifornire gli arsenali degli stessi pirati.

Il contrabbando del petroliouna vera e propria piaga per l’economia messicana – unito alla forza ormai militare dei cartelli della droga rende la pirateria qualcosa di molto più forte di quanto possa sembrare. A tal punto che spesso anche il costante monitoraggio della marina messicana compiuto con elicotteri, droni o motovedette, non permette di fermare la rete criminale che si estende sulle coste centroamericane. Tanto più che oggi la guerra dei narcos mostra un picco di violenza che fa sì che l’impegno di Città del Messico non possa rivolgersi completamente a debellare le sacche di pirati nel sud del Paese.

Infografica di Alberto Bellotto

Pirati dei Caraibi

Se il Golfo del Messico paga la violenza dei narcos e dei contrabbandieri di petrolio e benzina, più a sud, nel Mar dei Caraibi, la questione è diversa. Qui i traffici non sono soltanto quelli legati a droghe e carburante, ma s’innestano anche altri tipi di reti criminali.

Il mare che divide il Venezuela da Trinidad e Tobago è uno di quelli più colpiti dal fenomeno. Qui si innestano diverse cause. Innanzitutto la crisi venezuelana, che rende la via del crimine una delle strade percorribili per la sopravvivenza di comunità e famiglie. Ma la crisi venezuelana rende anche più facile lo sviluppo delle reti criminali periferiche proprio a causa dell’impossibilità di Caracas e dei governi locali di mettere in campo una forza adeguata al controllo del territorio. Povertà. criminalità locale e mancanza di controllo fanno sì che alcuni tratti di mare siano dei veri e proprio santuari della pirateria sudamericana.

I numeri parlano chiaro. Nel 2017 soltanto nell’area tra Venezuela e i vari stati insulari caraibici vi sono stati 71 attacchi di pirati.Ma quello che fa impressione è l’aumento rispetto al 2016: 163%. Numeri imponenti confermati anche dal fatto che ad essere attaccate non sono state solo navi di piccola stazza, come avveniva negli anni precedenti, ma anche navi cargo, petroliere o piattaforme off-shore. Qualcosa è cambiato nel fenomeno. E se a questo dato si aggiunge anche quello ancora più oscuro della crescita dello jihadismo in queste isole (Trinidad e Tobago ha rappresentato la vera fucina caraibica dello Stato islamico) si comprende come l’intero sistema criminale locale possa crescere nei numeri e nelle potenzialità.

Golfo di Guinea: il santuario dei pirati

Dall’altra parte dell’oceano Atlantico, la pirateria assume connotati sempre più inquietanti ed estremamente pericolosi. Il Golfo di Guinea si sta trasformando nel vero e proprio santuario africano della pirateria dopo che il fenomeno criminale in Somalia ha subito i colpi dell’operazione Atalanta e delle varie missioni di protezione delle navi da parte delle flotte militari.

Un rapporto di Oceans Beyond Piracy mostra che, almeno fino al 2017, il fenomeno della pirateria era in ascesa in tutta l’area dell’Africa occidentale. E in questo senso, gli episodi più recenti non depongono a favore di facili entusiasmi, visto che solo due settimane fa è stata assaltata la portarinfuse norvegese Mv Bonita cui è seguito il rapimento di sette marittimi filippini. I numeri forniti dall’Icc e dal Commercial crime service mostrano che nel 2019 gli attacchi in tutta l’Africa occidentale sono stati già almeno una sessantina. Assalti che derivano sia dalla volontà di colpire il traffico delle petroliere (il fenomeno della petro-piracy è forte anche per la ricchezza dei giacimenti locali) sia dall’obiettivo di guadagnare ingenti quantità di denaro dai riscatti richieste alle società di armatori.

Golfo di Aden e Somalia

Dall’altra parte dell’Africa, la pirateria che ha per anni infestato il Golfo di Aden, la costa somala e le vicinanze di Bab el Mandeb sembra oggi essersi sensibilmente ridotta nei numeri e nella pericolosità rispetto ai periodi precedenti.

Detto questo, il fenomeno, in calo come in altre parti del mondo, non va certo considerato estinto. Pur con gli effetti positivi delle operazioni internazionali anti-pirateria e del continuo perfezionarsi di Best Management Practices a bordo delle navi e dell’utilizzo di forze statali o private a difesa delle imbarcazioni, la pirateria del Corno d’Africa ha comunque lasciato il segno anche negli ultimi anni.

Il costo della pirateria somala per tutto il settore marittimo, sia civile che militare, era di circa 10 miliardi di dollari nel 2010, sceso a 1.4 nel 2017. Ma parliamo comunque di cifre che superano il miliardo di perdite, che riguardano non solo il costo per il settore privato, ma anche per le marine degli Stati coinvolti nelle operazioni a tutela della libertà di navigazione.

Anche in questo caso, come avviene in altre aree del mondo, il terreno in cui cresce la pirateria è chiaro. I signori della guerra che un tempo dominavano incontrastati la Somalia hanno deciso di diversificarsi. C’è chi si è unito alle fazioni islamiste, chi nella criminalità organizzata pura terrestre e chi nella pirateria. La manovalanza la trovano facilmente in un Paese in cui manca tutto. E molti pescatori locali, impoveriti dalla crisi economica e dall’arrivo delle flotte di pescherecci dall’oceano Indiano, si arruolano in queste milizie del mare che di fatto hanno reso per anni quel tratto di costa uno dei più pericolosi al mondo. La corda al controllo di Bab el-Mandeb e della via tra Golfo Persico e Suez ha poi fatto il resto: e adesso la presenza militare comporta un drastico ridimensionamento del fenomeno. Che comunque non si è mai arrestato.

I pirati del Sud-est asiatico

Come in Africa e in America Latina, anche nel Sud-est asiatico il problema dei pirati è non solo endemico ma anche in calo rispetto ai decenni precedenti. Ma anche per quanto riguarda i mari di Malacca e delle Filippine, non va affatto sottovalutata la potenzialità del fenomeno, dal momento che alla pirateria più comunemente nota si aggiungono altri tipo di piraterie ben più violente e inquietanti. Forze che si innestano su reti criminali già sviluppate ma che sfruttano canali diversi di reclutamento e alleanze, a cominciare dai movimenti separatisti fino all’estremismo islamico.

I numeri non sono allarmanti – e sono anche in discesa – ma lo sono le forze in campo e soprattutto il valore di quello che transita in queste acque bollenti. Con lo Stretto di Malacca che è uno dei principali choke-point del mondo, in cui transitano petroliere e i mercantili da e per l’Estremo Oriente, è chiaro che il traffico sia una grandiosa fonte di guadagno per tutte le reti criminali. Ma l’interesse delle potenze internazionali, in particolare della Cina, ma anche di Giappone, Corea del Sud così come dei partner commerciali, ha convinto gli stati rivieraschi a condurre una guerra estremamente chirurgica contro i pirati. A tal punto che gli assalti sono iniziati a calare sensibilmente già dal 2015 per quanto riguarda Malacca e l’Indonesia.

Ma il fenomeno può essere pericoloso se si guarda a quello che può comportare il suo innesto con le spinte indipendentiste e terroristiche. Prova ne è la recrudescenza della pirateria filippina che colpisce dove già sono presenti reti di stampo islamico o indipendentista. La criminalità si unisce in una miscela esplosiva: droga, contrabbando, estremismo islamico e secessionismo si amalgamano in un vero e proprio cocktail da cui il governo delle Filippine, per uscirne, ha chiesto aiuto anche a Cina e Stati Uniti. Segnale chiaro di cosa significhi, per quella parte del mondo, l’ascesa dei pirati.