“Ognuno di noi si muove per conto proprio. Ognuno di noi ha capito il concetto di battaglia, il significato del bene e del male”. Nell’unica immagine che gira di lui, Issam Elsayed Elsayed Abouelamayem Shalabi è a bordo di un treno, ha labbra carnose, la barba e un copricapo che copre parte della fronte. Probabilmente se lo è fatto da solo, con una kefiah bianca e nera. È nato in Egitto, il 1° luglio del 1996. Eppure il suo ultimo indirizzo di residenza corrisponde a una via di Milano. Dove è stato arrestato dalla Polizia di Stato, con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo internazionale. Perché ritenuto organico e vicino allo Stato Islamico e intenzionato a sacrificarsi per Daesh.

Non accadeva da qualche anno, a Milano. Prima di lui, due giovani di origini maghrebine avevano abbandonato la comunità Kayros per la Siria, con il fine di combattere per il gruppo di Abu Bakr Al Baghdadi. Era la mattina del 17 gennaio 2015 e i due non avevano ancora compiuto 20 anni. Avevano preparato i documenti, raccolto i loro effetti personali e lasciato un appartamento di via Iommelli, che per qualche tempo era stata la loro casa. Avevano raggiunto l’aeroporto di Bergamo e preso un volo per Istanbul. Alle spalle di Monsef El Mkhayar e Tarik Aboulala un passato familiare complicato, fatto di emarginazione e disagio. Profilo che accomuna decine di questi giovanissimi sedotti dalla nuova propaganda jihadista.

Chi è Shalabi

Shalabi, in Italia, invece era arrivato da qualche tempo. E lavorava. Prima come dipendente dell’azienda che aveva in appalto le pulizie di un Mc Donald’s nel centro di Teramo e poi a Cuneo. Una volta giunto nel capoluogo lombardo, aveva iniziato un’attività in nero per un’impresa per la bitumazione stradale. Ma, in parallelo, era soprattutto un miliziano. Che, secondo gli investigatori, ricopriva un ruolo significativo all’interno della complessa macchina di propaganda di Daesh, partecipando e gestendo le piattaforme social e impartendo ordini agli altri. Profondamente radicalizzato, gli inquirenti sul suo cellulare hanno trovato materiale audio e video che non lascerebbe spazio ad altre interpretazioni. Con lui sono stati fermati altri due connazionali, di 23 e 21 anni.

L’identikit dei soggetti a rischio

Il professor Paolo Branca, islamologo e docente di Storia delle religioni all’Università cattolica di Milano, non ha dubbi. Il Paese d’origine non è un elemento così rilevante quando si affronta il tema dell’estremismo. “La provenienza non è significativa: ad accomunare i tre fermati è stata più la vicinanza linguistica e la possibilità che si conoscessero già da tempo. Gli ultimi partiti (Monsef El Mkhayar e Tarik Aboulala, ndr), nel 2015, non venivano dall’Egitto”, ha chiarito il professore. Che conferma che il fenomeno della radicalizzazione “è diffuso un po’ ovunque” Dal Marocco alla Tunisia, fino al Belgio. Colpisce, invece, la giovane età dei tre. Tutti nati nella seconda metà degli anni Novanta. “L’abbassamento dell’età anagrafica è legato, invece, a un aumento dell’arrivo di minori non accompagnati”, che per il docente rappresenta invece un fattore di rischio. Se, infatti, 30-40 anni fa, a raggiungere le coste italiane erano soprattutto uomini adulti soli, che poi si ricongiungevano alle mogli, oggi i giovanissimi arrivano senza una famiglia. “Questo è un aspetto preoccupante”, conferma l’islamologo, “perché questi ragazzini arrivano, spesso, con un background fortemente compromesso, fatto di situazioni familiari problematiche, una scarsa educazione scolastica, disagio, che si aggrava con il fenomeno migratorio”. Arrivano qui alla soglia della maggiore età e, magari, finiscono in prigione per crimini minori. Come furti, rapine o, più comunemente, spaccio.

L’ideologia come una “sostanza”

“Nelle carceri“, racconta Branca, “incontrano delinquenti professionisti ed è lì, nella zona d’ombra, che si incrocia la fascinazione del riscatto che, spesso, il messaggio jihadista sembra suggerire”. La combinazione è esplosiva perché l’ideologia “diventa come una sostanza stupefacente e crea una sorta di dipendenza. Ne fanno le spese i soggetti più fragili, quelli più deboli”. I giovani sedotti dalla propaganda di Daesh hanno profili comuni. Spesso non sono religiosi praticanti, bevono e fanno uso di sostanze. Poi, dopo l’indottrinamento smettono improvvisamente di bere e di drogarsi, sostituendo quell’abitudine a un altro tipo di dipendenza. Quella legata all’ideologia. Che, in un certo senso, li imbroglia ma li appaga. “Questo percorso, per molti di loro, rappresenta una strana via di redenzione, di riscatto”, conferma il professore.

L’equivoco del messaggio messianico

Il messaggio dello Stato Islamico, a differenza di quello di Al Qaeda e di Bin Laden, affascina e conquista i giovanissimi per il suo contenuto messianico, “da fine del mondo”: “È tipico di Daesh ed è un linguaggio nuovo, perché nel messaggio si prospetta uno scontro finale in Siria. Non è un caso che uno dei loro simboli sia Dabiq, questa leggendaria città siriana dove viene raccontato che ci sarà la battaglia definitiva tra il bene e il male. Questa fascinazione ha un peso notevole sulle menti più deboli. Anche perché i più giovani vogliono l’assoluto”, conferma Branca.

Seguono “chi ce l’ha fatta”

Eppure, Shalabi, apparentemente, non si trovava così tanto ai margini della società. Seppur precario aveva un lavoro. Ed è anche per questo che, secondo l’islamologo, gli era stato affidato un compito da leader all’interno dell’organizzazione: “Lui, considerato un capo, era visto dagli altri due probabilmente come uno che ce l’aveva fatta”. E il suo non è un caso isolato. In Europa, infatti, tra i vertici di Daesh compaiono profili di professionisti insospettabili. Medici, scienziati e ingegneri, in particolare. “Quasi mai vengono presi in considerazione laureati in scienze umanistiche”, specifica Branca, “e la ragione sta nel fatto che si tratta di studiosi di scienze esatte, che non ammettono altre interpretazioni”.

I radicalizzati che non si riconoscono (e i segnali sottotraccia)

Secondo il professor Branca, rispetto ad alcuni anni fa, non è più così immediato il riconoscimento di un affiliato a un gruppo terroristico. In passato, infatti, la barba lunga e il camicione bianco fino sopra le caviglie (come quello indossato dal Profeta) potevano essere segnali da ricondurre ai gruppi salafiti. Oggi, invece, è più semplice che questi giovani taglino la barba. “Esistono, però, dei segnali che sono più sottili e che la maggior parte delle persone comuni non è in grado di riconoscere: si possono individuare perché non danno la mano alle donne, rifiutano di accarezzare un cane o non frequentano locali dove si bevono alcolici, perché ritenuti peccaminosi”, specifica Branca.

La radicalizzazione si impara (anche) online

Il luogo ideale dove, più facilmente, ci si può avvicinare ai contenuti prodotti da Daesh è la rete. “Non è un caso”, continua Branca, “che gli elementi interessanti, gli inquirenti li trovino nei cellulari degli arrestati”. È lì che sono contenuti link, immagini, file audio che riconducono a giuramenti di fedeltà e a materiali pericolosi. Tutto sembra essere più veloce e più efficace sul Web: gruppi Facebook, canali YouTube o Vimeo e Telegram, dove le chat vengono criptate e sono raggiungibili, effettivamente, da chiunque.

Come si argina il pericolo

“Uno dei metodi più efficaci per combattere questo fenomeno è quello di allearsi con i tanti musulmani che conducono una vita ordinaria e che sono, nel mondo, tra le prime vittime di questa propaganda”, chiarisce l’islamologo. Che conclude: “Tanti fedeli osservano questi accadimenti con profondo disagio, anche per l’utilizzo che questi gruppi fanno della religione. Alleandosi con chi prende le distanze da quei gruppi può aiutare ad arginare il pericolo e a cancellare l’islamofobia strisciante, che episodi come questo producono”.

 





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