Dopo più di un anno di apparente letargo, il terrorismo islamico in Indonesia sembra essersi bruscamente risvegliato. Cinque esplosioni hanno colpito la città di Surabaya in meno di tre giorni; tre chiese cristiane e un commissariato di polizia sono stati distrutti; le vittime si contano a decine. Una serie di attacchi che per modalità e tempistiche rivelano un cambiamento nella strategia del network del terrore.
Mentre il Califfo ammainava le bandiere nere in Siria e in Iraq, un nuovo fronte veniva aperto nel Sud-Est asiatico. A partire dal 2016 una serie di attentati quasi simultanei colpì Filippine, Bangladesh, Thailandia e Indonesia. Gruppi tradizionalmente presenti sul territorio giurarono fedeltà al califfo di Siria, intuendo che un’affiliazione a tale ‘brand’ avrebbe portato notevole visibilità alle loro differenti cause. Nuovi simboli per vecchie lotte. Nuovi pericolosi alleati per portare avanti antichi conflitti. Nelle Filippine Abu Sayyaf, pur sconfitto a Marawi, ha compiuto un enorme salto di qualità alleandosi con i tagliagole del califfo. In Thailandia, i guerriglieri islamici che da anni operano nel sud del Paese, al confine con la Malesia, nel 2006 hanno iniziato a spostarsi a settentrione compiendo una serie di attentati dinamitardi nelle grandi metropoli mettendo in serio imbarazzo il governo. In Bangladesh gruppi di estremisti hanno recentemente innalzato il livello di scontro con l’obiettivo di destabilizzare il Paese e il Califfato si è insediato proprio qui per irradiarsi inesorabilmente in tutta l’area.
L’Indonesia è il primo Paese al mondo per numero di musulmani (200 milioni) ma, contrariamente al resto del mondo, non vide che 600 foreign fighters unirsi al califfato in Siria ed Iraq. Una percentuale bassissima se si pensa che dal Belgio (300mila musulmani su 11 milioni di abitanti) partirono 516 cittadini per arruolarsi nell’ISIS. Eppure Bali e Jakarta furono teatro di sanguinosi attentati negli anni in cui il monopolio del terrore era amministrato da al-Qaeda. Diversi attentati compiuti tra il 2002 e il 2004 spinsero il governo indonesiano ad istituire un corpo speciale antiterrorismo, nacque così il famigerato Detachment 88: agenti addestrati direttamente da Australia e USA. L’Indonesia investì moltissimo per debellare il cancro dell’estremismo e i risultati furono sorprendentemente positivi. Il numero di violenze a sfondo religioso diminuì sensibilmente e molti dei gruppi legati ad al-Qaeda furono smantellati. Fino al 2016, quando una bomba esplose nel centro di Jakarta affollato di turisti. Un primo avvertimento sottovalutato, preludio di ciò a cui stiamo assistendo in questi giorni.
L’agenzia di stampa dello stato islamico, Amaq, ha subito rivendicato gli attacchi alle chiese e alla stazione di polizia. A ben vedere però, le sigle responsabili degli attentati sono altre. Gli inquirenti puntano il dito verso il gruppo chiamato Jamaat Ansharut Daulah (JAD). Un recente rapporto del Dipartimento di Stato americano descrive il gruppo più come una rete di gruppi minori (gli americani ne individuano due dozzine) spesso costituiti da cellule di gruppi familiari che agiscono in maniera autonoma. Molti di questi sono combattenti in fuga da Marawi nelle Filippine o dai territori del califfato in Siria.
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Conoscere la storia del JAD aiuta l’osservatore a comprendere una realtà complessa come quella indonesiana e a capire come mai sia così complesso smantellare una rete di fondamentalisti che, come un’idra, continua a moltiplicare le sue teste.
Per comprendere come si è giunti agli attacchi simultanei di questi ultimi giorni bisogna andare però all’8 Maggio scorso. Nel carcere di massima sicurezza di Bako Brimob va in scena una sanguinosa sommossa, dopo circa trentasei ore di scontri restano uccisi ben cinque agenti della polizia e un detenuto. Fonti della polizia riportano che gli agenti sono stati uccisi tramite sgozzamento. Ufficialmente la rivolta è scoppiata per motivazioni legate al cibo ma la dinamica degli eventi fa propendere per un’azione ben pianificata. Nel carcere infatti, oltre a numerosi componenti del JAD e ai terroristi arrestati negli scorsi anni dal Detachment 88, sono rinchiusi due protagonisti della scena politico religiosa indonesiana.
Il primo è Aman Abdurrahman, indiscusso leader spirituale e fondatore del JAD. Di lui si conoscono i suoi studi giovanili presso l’università saudita di Jakarta dove, dopo la laurea intraprese la carriera di docente universitario. Nel 2000 abbandonò bruscamente l’università per dedicarsi al jihad. Negli anni di militanza incontra Abu Bakar Bashir fondatore del Jemaa Islamiya (movimento radicale sunnita legato ad al-Qaeda e responsabile di numerosi attacchi terroristici nel sud-est asiatico). Insieme i due creano addirittura un centro d’addestramento nelle foreste di Aceh. Nel 2015 Abdurrahman viene incarcerato, ma è proprio da dietro le sbarre che creerà i maggiori pericoli. Conosciutissimo tra i detenuti riesce a radicalizzare un numero impressionante di persone all’interno del carcere (solo 20 nei primi cinque mesi del 2015), invia sermoni e messaggi tramite Telegram al di fuori del penitenziario. Si pensa sia lui la mente dietro le bombe di Jakarta nel Gennaio 2016, evento che segnerà per sempre la storia del radicalismo islamico indonesiano, da quel momento legato strettamente al Califfato.
L’altro ospite del carcere di Bako Brimob è invece l’ex governatore di Jakarta, Basuki Tjahaja Purnama, meglio noto come Ahok. L’ex politico di fede cristiana e di etnia cinese fu accusato durante la campagna elettorale di aver insultato il Corano. Una campagna mediatica durata mesi ha portato alla sconfitta politica di Ahok e alla sua successiva incarcerazione con l’accusa di blasfemia. Una evento ai limiti dell’assurdo visto che le accuse rivolte verso di lui sono totalmente infondate e la condanna è servita soltanto a placare gli animi di migliaia di aderenti al Fronte dei Difensori dell’Islam, un movimento integralista molto vicino agli adepti di Abdurrahman. Non per nulla, nell’evidenziare la svolta estremista all’interno della società indonesiana gli analisti parlano di “Caso Ahok”.
Dopo gli attacchi a Surabaya, diversi nomi sono tornati ad apparire sulle pagine dei quotidiani indonesiani. Zainal Anshori, fondatore nel 1998 del Fronte dei Difensori dell’Islam, arrestato lo scorso febbraio nell’ambito delle indagini sulle affiliazioni allo Stato Islamico.
Iwan Dharmawany detto Rois, ritenuto il collante tra i guerriglieri islamisti filippini e i terroristi indonesiani. Durante il processo che lo ha condannato all’isolamento dal 2016, Rois ha apertamente confessato che il suo obiettivo è sempre stato quello di creare uno Stato Islamico in Indonesia. Era lui il responsabile delle casse del JAD e sempre lui organizzava i viaggi per i foreign fighters diretti in Siria.
Bahrun Naim, una delle personalità più importanti dell’ISIS a Raqqa, comandante di una brigata composta da soli Indonesiani, Filippini e Malesi. Di lui non si hanno più notizie dall’inizio dell’anno. C’è chi sostiene che sia riuscito a far perdere le proprie tracce e tornare in Indonesia. Se fosse vero potrebbe esserci lui dietro gli attacchi di questi giorni a Surabaya.
Al di là delle illazioni e dei possibili mandanti, è chiaro che il terrorismo islamico sta tentando in tutti i modi di trascinare l’Indonesia nel caos. Gli islamici radicali sono sempre più numerosi e gli oppositori politici del presidente Widodo ultimamente sostengono posizioni estremiste per ottenere i loro voti nella prossima tornata elettorale. Sono decenni che la società indonesiana si sta radicalizzando; le bombe sono soltanto la punta dell’iceberg.