Da alcuni anni politologi ed esperti delle relazioni internazionali hanno introdotto un neologismo nel loro vocabolario geopolitico: Cinafrica. Il termine, coniato sulla falsariga del ben più noto Françafrique, è utilizzato per indicare la crescente influenza di Pechino nel continente nero, concentrata soprattutto nella parte meridionale ed orientale e nelle aree storicamente di influenza francese e portoghese.

L’ascesa della Cinafrica, avvenuta largamente a scapito dell’impero neocoloniale francese, è uno dei tanti segni del mutamento del panorama post-bipolare  e dello spostamento degli equilibri di potere dall’Occidente all’Oriente, ma se fino ai tempi recenti l’espansione è andata avanti indisturbata, caratterizzata da maxi-prestiti trappola, appalti miliardari per riscrivere la geografia infrastrutturale e l’architettura urbana di interi paesi e diplomazia dei doni, l’entrata all’Eliseo di Emmanuel Macron e alla Casa Bianca di Donald Trump hanno posto le basi per la nascita di un contenimento anticinese nel continente.

Le recenti ondate di violenza, alimentate da attriti interetnici e insurgenza jihadista, potrebbero far parte di un più ampio disegno anticinese, che è già stato collaudato con successo altrove, dall’America latina all’Asia meridionale. L’obiettivo è uno: recuperare il terreno perso negli anni della guerra al terrore e spingere l’impero celeste all’arretramento.

Gli attentati natalizi

In Burkina Faso dicembre inizia e finisce nel sangue: l’1 del mese ad Hantoukoura, nell’Est del paese, un commando aveva fatto irruzione in una chiesa, nel corso della messa domenicale, lasciando a terra 11 fedeli, mentre la vigilia ed il Natale sono stati macchiati da tre attacchi terroristici.

La mattina della vigilia hanno avuto luogo due episodi terroristici coordinati ad Arbinda, nella provincia di Soum: un assalto contro civili ha causato 35 morti, mentre un attacco contro una postazione militare, compiuto da un plotone di oltre 200 jihadisti, è risultato in un bollettino di guerra: 80 terroristi uccisi, 7 militari morti e più di 20 feriti. Il giorno seguente, nei pressi di Hallale, sempre nella provincia di Soum, un’imboscata contro una pattuglia di militari termina con 16 morti: 11 soldati e 5 terroristi.

Si tratta soltanto degli ultimi episodi sanguinosi che scuotono il paese, dal 2015 entrato in una spirale di violenza jihadista alimentata principalmente dalle cellule nel Sahel di Al Qaeda e Stato Islamico che ha, fino ad oggi, provocato oltre 700 morti, 200 dei quali appartenenti alle forze armate, e circa 550mila sfollati.

Il ruolo della Cina

Burkina Faso, Nicaragua, Pakistan e Sri Lanka sono quattro paesi apparentemente scollegati tra loro, accomunati soltanto dall’essere recentemente caduti in un vortice di instabilità. Ma c’è un elemento, in realtà, che potrebbe legare l’insurgenza jihadista nel Burkina Faso alla semi-guerra civile in Nicaragua e ai sanguinosi attentati di Pasqua a Colombo: la Cina.

In ognuno di questi teatri l’instabilità è iniziata all’indomani dell’arrivo del dragone e, nei casi di Islamabad e Managua, la ragione anticinese delle violenze è stata anche palesata fin da subito. In Pakistan ha fatto la comparsa l’Esercito di Liberazione del Baluchistan, impegnato in attacchi contro obiettivi cinesi, come ad esempio i cantieri aperti del Corridoio Economico Cina-Pakistan, che è una parte fondamentale della Nuova Via della Seta, mentre in Nicaragua il progetto faraonico di un canale artificiale, pensato per competere con quello di Panama, nel 2013 ha dato il via ad una stagione di proteste poi degenerate in un arresto civile ancora in corso, che ha spinto gli investitori cinesi a ritirare la protesta, ritenendo l’instabilità un fattore di alto rischio per la realizzabilità ed il ritorno economico del progetto.

Nello stesso contesto potrebbero essere inquadrati anche gli attentati di Colombo, avvenuti sullo sfondo di intense manifestazioni anticinesi, che nei piani di Pechino dovrebbe diventare uno snodo fondamentale per i traffici marittimi nell’oceano indiano e sul cui sviluppo investirà fino a 10 miliardi di dollari nei prossimi anni.

Anche in Burkina Faso, l’esplosione dell’instabilità è avvenuta dopo lo sbarco degli investitori e della diplomazia cinese. Il 2015 è stato lo spartiacque della storia recente burkinabé: assume la carica di presidente Roch Marc Christian Kaboré, dopo i tumulti popolari che l’anno precedente hanno causato la caduta di Blaise Compaoré e alimentato un tentativo di golpe militare, iniziano i colloqui segreti con la Cina per il disconoscimento di Taiwan ed avvengono i primi attentati islamisti nella storia recente del paese.

I rapporti diplomatici con Taipei vengono rotti ufficialmente il 24 maggio 2018; ed un mese e mezzo dopo, in luglio, il vicepremier cinese Hu Chunhua inaugura un’ambasciata a Ouagadougou. La decisione del governo burkinabé viene accolta calorosamente da parte cinese, che contraccambia attraverso la diplomazia del corteggiamento: 44 milioni di dollari per sostenere la Forza G5 del Sahel, la costruzione di un ospedale a Bobo Dioulasso, la promessa di farsi carico di ogni progetto fino ad allora pattuito con Taiwan, un prestito da parte dell’Exim Bank cinese per costruire un’autostrada Ouagadougou-Bobo Dioulasso.

Pochi mesi fa’, in agosto, China Yunhong Group aveva anche annunciato un piano d’investimento quinquennale nel paese dal valore di circa 336 milioni di dollari, concentrato nei settori dell’agricoltura, dell’industria della salute e farmaceutica, e nello sfruttamento delle risorse minerarie. Ma, come già accaduto in Nicaragua e, parzialmente in Sri Lanka, l’ondata di terrore potrebbe spingere la Cina a direzionare gli investimenti altrove a causa del clima d’incertezza e della nolontà di impegnarsi in un teatro remoto, ostile ed oneroso, segnando l’inizio del crollo della Cinafrica.