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Conosciute per il clima tropicale e per il mare cristallino, le Maldive sono una delle realtà maggiormente interessate dal turismo internazionale. Totalmente dipendenti dalla liquidità iniettata nell’economia dagli ingenti flussi turistici – oltre un milione di visitatori all’anno –, queste isole nascondono un segreto: vantano il triste primato di principale bacino di reclutamento dello Stato Islamico nell’Asia meridionale.

Obiettivo: uccidere l’ex presidente

Malé, 6 maggio 2021. La quiete maldiviana viene scossa da un tremendo boato. È un’esplosione, un ordigno improvvisato che qualcuno ha meticolosamente nascosto e fatto detonare al momento opportuno. La vittima è Mohamed Nasheed, presidente delle Maldive dal 2008 al 2012. L’ex capo di Stato viene trasportato d’urgenza nel più vicino ospedale, per poi venire trasferito in Germania. Sopravviverà. Il popolo tira un sospiro di sollievo, mentre la politica cerca di mantenere il più stretto riserbo sulle indagini, evitando accuratamente di veicolare prematuramente l’idea che possa essersi trattato di un attentato di stampo islamista.

Le Maldive vivono di turismo e non possono permettersi la nomea di nazione insicura e preda del jihadismo. Gli inquirenti, però, puntano verso una sola direzione – i jihadisti –, anche perché su Nasheed pendeva una sentenza di morte, in quanto “laa-dheenee” (let. irreligioso), e i politici non possono che prenderne atto. I tre arrestati, del resto, provengono da contesti musulmani e vengono descritti dai poliziotti come degli “estremisti religiosi”. Il governo denuncia l’attentato in termini di “attacco alla democrazia e all’economia”, promettendo pene severe per gli esecutori, e il mondo scopre che le insospettabili Maldive hanno un problema di terrorismo.

Una lunga storia di sangue

L’immaginario collettivo dipinge le Maldive come un paradiso in terra da visitare almeno una volta nella vita, ma gli studiosi del terrorismo islamista le vedono con occhiali differenti, memori del sangue che le ha bagnate e degli attentatori ai quali hanno dato i natali. Perché le Maldive, spiagge e mare a parte, sono anche il luogo dell’attentato di Malé (2007), di manifestazioni ampiamente partecipate a favore dello Stato Islamico (2014) e degli omicidi del politico Afrasheem Ali (2012), del giornalista Ahmed Rilwan (2014) e del blogger Yameen Rasheed (2017), nonché la culla di almeno 250-450 combattenti arruolatisi nello Stato Islamico negli anni della grande anarchia tra Siria e Iraq.

I maldiviani che hanno giurato fedeltà al jihad armato sono sparsi in tutto il continente, dal Medio Oriente all’Asia meridionale, passando per l’Afghanistan, e combattono per più di un’organizzazione terroristica, dallo Stato Islamico ad Al Qaeda, operando sia all’estero sia in patria – come dimostrano gli omicidi illustrati poc’anzi, l’attentato all’ex presidente Nasheed e l’accoltellamento di tre turisti a febbraio dell’anno scorso.

Come e perché le Maldive siano divenute uno dei principali bacini di reclutamento dello Stato Islamico in Asia meridionale, presentando il più elevato numero di combattenti stranieri pro capite del mondo, non è un segreto per gli analisti: la classe politica, ignorando volutamente il fenomeno per paura di ricadute negative sull’industria turistica, ha permesso inconsapevolmente che imam radicali e reclutatori dai credi salafita e wahhabita agissero indisturbati, facendo proseliti tra la popolazione, che è a maggioranza sunnita, e trasformando moschee, centri culturali e scuole coraniche in incubatori d’odio.

Le origini

Gli esperti concordano: le origini della radicalizzazione religiosa nelle Maldive vanno fatte risalire al 2004, quando, nel dopo-tsunami, l’arcipelago fu invaso da orde di predicatori e operatori umanitari provenienti dalle petromonarchie wahhabite, in primis l’Arabia Saudita, che, dietro l’ombrello dell’assistenza umanitaria, “iniziarono a lavare il cervello ai giovani maldiviani che vivevano al di sotto della soglia di povertà, facendo loro credere che lo tsunami fosse una punizione per non aver seguito i veri insegnamenti dell’islam”.

Negli anni successivi, e fino ad oggi, “l’ideologia islamista radicale ha infiltrato il tessuto sociale delle isole” e, complice l’indifferenza e l’atroce miopia della politica, ha iniziato a seminare terrore nell’arcipelago e ad “infiltrarsi nelle forze di sicurezza, che giocano una parte nel reclutamento di giovani nello Stato Islamico”. Una bomba a orologeria che ricorda da vicino la Francia, anche perché le indagini hanno appurato l’esistenza di una connessione tra islam radicale, narco-bande simil-religiose – 30 quelle censite nella sola capitale – e periferie dimenticate dallo Stato – esplose nel 2003 dopo la morte di un 19enne in un commissariato, causando più di due morti e oltre venti feriti. Uno Stato, quello maldiviano, che, troppo impegnato a creare una ricchezza esclusivistica nelle enclavi-resort che affollano l’arcipelago, ha lasciato che l’internazionale del terrore seducesse gli abitanti dei ghetti.

La situazione oggi

Il recente attentato contro l’ex presidente Nashed è servito a ricordare alle autorità maldiviane che la minaccia terroristica non è venuta meno con la fine dell’epopea dello Stato Islamico. I numeri possono spiegare ciò che alle parole riesce soltanto in parte:

La politica ha reagito a tali numeri a mezzo di leggi contro il riciclaggio di denaro illecito e il terrorismo, inaugurando un centro dell’antiterrorismo ed un piano quinquennale contro la radicalizzazione, lanciato nel 2019, e trovando supporto materiale e variegato nell’Unione europea, nelle Nazioni Unite, nell’Interpol e nel Giappone.

Numeri e fatti indicano che l’uscita dal tunnel è ancora lontana, ma le autorità dovranno premere sull’acceleratore se vorranno preservare la nomea delle isole e, quindi, salvaguardare l’integrità di un’economia basata sul turismo. Arresti ed espulsioni sono dei palliativi, ergo non basteranno. Il problema nasce nei ghetti, dunque è nei ghetti che andrà trovata la soluzione. Quei quartieri sino ad oggi dimenticati, che periodicamente insorgono contro la brutalità poliziesca e che facilmente si prostrano agli affabulatori del terrore, vanno recuperati e resi dignitosi, a misura d’uomo, e i loro abitanti andranno trattati per ciò che sono – esseri umani – anziché come reietti.

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