Dal crollo del califfato in Siria e Iraq, la questione del rimpatrio dei foreign fighters, detenuti nei centri curdi nel nord della Siria, è all’ordine del giorno. Non così quella sul loro destino, una volta tornati in patria.

Verosimilmente, gli ex-combattenti dovranno scontare una pena detentiva per i reati commessi: solo un inizio, nel loro caso, di un percorso lungo e accidentato, che dovrebbe portarli a rivedere in maniera critica quel bagaglio ideologico grazie al quale possono fare nuovi adepti proprio all’interno delle carceri.

Già in passato – come nel caso del famigerato Camp Bucca, in Iraq – le carceri si sono rivelate terreno fertile per il reclutamento di jihadisti. Ed è oggi opinione condivisa che la reclusione acceleri il processo di radicalizzazione dei prigionieri, esponendoli più facilmente al contatto con teorie ideologiche e rendendoli facili prede di reclutatori pro-jihad.

L’attività dei reclutatori

Per i soggetti reclutatori – secondo un’analisi condotta da Anne Speckhard e Ardian Shajkovci -, le carceri rappresentano un’occasione unica da sfruttare, non dovendo nemmeno faticare per trovare nuove reclute, già tutte presenti nello stesso luogo. Il loro ruolo consiste “solo” nel diffondere le proprie idee e nel fomentare una “violenza per procura“, ovvero indottrinando altre persone affinché, una volta uscite, conducano azioni terroristiche in nome del gruppo.

Le potenziali reclute non sono necessariamente detenute per reati connessi al terrorismo, anzi hanno spesso pene brevi da scontare. Ma proprio per questo possono essere avvicinate e istruite, senza suscitare particolari sospetti, perché commettano attacchi una volta fuori dal carcere.

Anche per i soggetti finiti in carcere perché già terroristi o fiancheggiatori di organizzazioni terroristiche la detenzione può essere un’esperienza deleteria. Li può rafforzare nella loro dedizione alla causa jihadista, attraverso il contatto con individui ancora più estremisti, e può ampliare il loro “network” di conoscenze nella rete del terrore.

Secondo i dati elaborati dall’International Center for the Study of Radicalisation (Icsr), il 27 per cento dei sostenitori dell’Isis sarebbe stato radicalizzato in carcere: una percentuale alta, che fa riflettere sulla necessità di misure effettive di recupero degli ex-combattenti.

I soggetti reclutati

Coloro che entrano in carcere per la prima volta sono individui particolarmente vulnerabili e possono trovarsi ad affrontare numerose minacce, di fronte alle quali sono costretti a elaborare dei modi per difendersi. Uno di questi consiste proprio nell’affiliarsi ai prigionieri musulmani, i quali formano già un gruppo compatto che organizza momenti di preghiera e di studio.

Gli individui che si avvicinano a questi gruppi o si convertono in carcere per diventarne parte sono elementi potenzialmente sensibili a una successiva radicalizzazione. I neo-convertiti, in particolare, essendo più ingenui e quasi sprovveduti nei confronti dei reali dettami dell’islam, sono facile preda di reclutatori islamisti, incitanti alla violenza.

La conversione e radicalizzazione delle persone in carcere costituisce una minaccia per la sicurezza proprio per la sua imprevedibilità. Gli stessi operatori del carcere sono portati a sottovalutare il fatto che persone condannate per crimini non legati in alcun modo al terrorismo possano diventare in poco tempo dei jihadisti.

Molto dipende anche dalla capacità dei reclutatori, che di solito presentano tratti comuni: hanno cioè buone capacità comunicative, sono dotati di una grande intelligenza emotiva e scusano il passato criminale dei loro seguaci, arrivando persino ad apprezzarlo. Nella propaganda jihadista, infatti, i crimini commessi contro gli infedeli non sono qualcosa di cui vergognarsi, bensì azioni legittime, che devono essere fatte nel nome di Allah.

I programmi di de-radicalizzazione

Che il carcere possa favorire la radicalizzazione jihadista non è una novità. Nel 2006, ad esempio, se ne era già occupato il Dipartimento di Stato americano, che aveva sottolineato la necessità di realizzare un programma di de-radicalizzazione, destinato ai detenuti delle carceri gestite dalle forze statunitensi in Iraq.

Proprio i militari americani si erano resi conto che, nelle carceri di Camp Bucca e di Camp Cropper, i membri di Al-Qaeda avevano iniziato a indottrinare i detenuti, insegnando loro anche a realizzare ordigni esplosivi improvvisati, disegnando le istruzioni sulla sabbia.

Inizialmente, le forze americane avevano cercato di isolare i jihadisti, allontanandoli dai prigionieri più vulnerabili; con l’aumento del numero dei prigionieri e lo sviluppo delle capacità di dissimulazione dei terroristi, questo metodo è risultato inadeguato. Da qui la necessità di veri e propri programmi di de-radicalizzazione.

Il tema riguarda da vicino anche l’Italia, seppur in misura inferiore rispetto ad altri Paesi europei. Il sistema italiano è al passo nella protezione dalla minaccia costituita dai foreign fighter e dagli homegrown terrorist. Recentemente, l’antiterrorismo italiano è stato elogiato per aver riportato in patria un jihadista dello Stato islamico, per sottoporlo a processo con l’accusa di terrorismo internazionale.

Al momento, tuttavia, mancano nel Paese sia centri di de-radicalizzazione appositamente pensati, sia leggi che ne stabiliscano il funzionamento. Eppure servirebbero, per evitare che le carceri diventino l’ultima frontiera del jihad e quasi un’università, dove l’estremismo è l’unica materia insegnata.





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