È stato arrestato alla fine dell’aprile 2020, mentre tutta l’Europa cercava di contenere l’epidemia causata dal nuovo coronavirus. Si nascondeva ad Almeria, città dell’Andalusia a sud della Spagna. Prima che la Policia nacional lo trovasse e lo arrestasse, Abdel Majed Abdel Bary aveva trovato rifugio in uno dei luoghi più evocativi del Paese, ovvero quell’Analusia che, ancora oggi, per al Qaeda e per il fondamentalismo islamico conserva un significato importante (più propagandistico che simbolico). Perché al Andalus, soprattutto per la retorica jihadista, resta un ideale da rivendicare, più nella mente dei combattenti che sulle cartine geografiche. Quel fermo, in Spagna, ha fatto rumore per due motivi: Bary era uno dei terroristi dello Stato islamico più ricercati d’Europa e la sua presenza nel Paese aveva riacceso le preoccupazioni delle autorità locali. Perché dopo l’attentato di Barcellona dell’estate 2017, l’estremismo islamico, almeno in Spagna, sembrava aver lavorato sottotraccia e non più in superficie.

L’arresto di Bary (in Andalusia)

Bary è il figlio di Adel Abdel Bari, estremista vicinissimo ad al Qaeda e stretto collaboratore del successore di Osama bin Laden, Ayman al-Zawahiri, ritenuto la mente dietro agli attentati alle ambasciate americane in Tanzania e Kenya del 1998, dove persero la vita più di 200 persone. Al giovane di origini egiziane, che per un periodo aveva fatto il rapper nel Regno Unito, era stata tolta la cittadinanza britannica a causa della sua appartenenza a Daesh. Poi era sparito e in base a quanto ricostruito dal Guardian, sarebbe stato arrestato ad Almeria poco dopo essere entrato illegalmente in Spagna dall’Algeria.

Secondo quanto riportato da La Stampa, il giovane si sarebbe nascosto nella città andalusa insieme ad altri due jihadisti in un appartamento in affitto e, sfruttando l’emergenza sanitaria, sarebbe riuscito a celare la propria identità, grazie all’uso costante della mascherina e limitando le sue uscite. Le autorità ritengono che sia il terrorista “George” del gruppo ribattezzato “I Beatles”, guidato da Jihadi John, responsabili di aver giustiziato il corrispondente di guerra James Wright Foley, decapitandolo in un video circolato poi in rete. Ritenuto un foreign fighters particolarmente pericoloso, il giovane Bary è considerato anche un importante anello di congiunzione tra il mondo dello Stato islamico e quello di al Qaeda proprio per la sua storia familiare. E se è vero che i due gruppi, negli anni, non hanno mai nascosto le loro rivalità, è altrettanto immaginabile che l’obiettivo comune jihadista in Europa, in questo momento, sia quello di riorganizzarsi. Magari partendo proprio dalla Spagna.

Radicalizzati di prima (e ultima) generazione

Il fatto che l’arresto di Bary sia avvenuto in Andalusia, ha riportato l’attenzione su un Paese dove i fenomeni di radicalizzazione esistono (da anni), ma si presentano con forme e caratteristiche un po’ diverse rispetto a quanto accade in Francia e in Belgio, per esempio, dove le manifestazioni jihadiste coinvolgono altre generazioni. “La situazione della radicalizzazione è preoccupante come in un qualsiasi Paese europeo, ma ciò che la distingue è che qui gli individui reclutati appartengono alla prima e alla seconda generazione di immigrati, a differenza di quello che si verifica nel Regno Unito, in Germania o in Francia, dove questi processi colpiscono le terze generazioni”, spiega Anna Teixidor Colomer, giornalista, scrittrice e docente di “Prevenzione della radicalizzazione” all’università di Barcellona, che da qualche anno studia il fenomeno del jihadismo spagnolo. Perché se in Francia e in Belgio, gli immigrati “stranieri” (provenienti principalmente dal Maghreb) si sono trasferiti ormai diversi anni fa, in Spagna il processo è stato tutto diverso ed è iniziato in ritardo. “Qui, molti maghrebini sono arrivati intorno agli anni Novanta: è come un laboratorio, una fase sperimentale dell’immigrazione, e il sentimento di frustrazione causato dal rifiuto sociale li coinvolge direttamente, in quanto ultimi arrivati”, conferma Joan Manuel Cabezas, antropologo sociale spagnolo. E l’emarginazione sociale, in certe circostanze, può rendere i soggetti più vulnerabili esposti all’avvicinamento jihadista che, anche in Spagna, illude di offrire una sorta di riscatto.

Gli arabi ricchi, i “moros” e la discriminazione sociale

Come confermato dagli studiosi, infatti, i primi musulmani ad arrivare nel Paese in età contemporanea, furono gli arabi sauditi, gli emiratini e i qatarioti negli anni Ottanta. Ma non si trattava di una forma di immigrazione economica vera e propria come quella marocchina, ma più di una forma di turismo di lusso. “Gli arabi ricchi venivano a Marbella e a Malaga, ma anche a Barcellona e a Sitges. Poi, negli anni Novanta, è stata la volta degli immigrati dal Marocco e dall’Algeria, persone che a differenza di altri si trasferivano per necessità. La gente li identifica ancora come ‘moros’, una parola dispregiativa che indica i maghrebini”, racconta ancora Cabezas. Sono gli esclusi, i discriminati e, spesso, ancora i più poveri. “Il marocchino medio ha convissuto o convive con una lunga storia di esclusione sociale”, conferma ancora il docente, che spiega come sia proprio l’emarginazione ad avvicinarli (a volte) al fondamentalismo, piuttosto che l’origine o la religione. “Alcuni sono nati in Marocco, altri in Spagna, ma la maggior parte delle persone li considererà sempre marocchini”, dichiara l’antropologo. Eppure, la storia spagnola è strettamente collegata a quei “mori” che ora, in un certo senso, vengono discriminati. Lo chiarisce Dolors Bramon, filologa e storica spagnola, specializzata nel mondo musulmano: “I mori, che secoli fa furono cacciati, divennero dei senza terra, ma appartenevano a questi luoghi ed erano i nostri avi, anche se le persone non ne hanno consapevolezza. Avere origini ebraiche, per esempio, per i catalani è motivo di vanto. Non vale lo stesso per i mori, che continuano ad avere una cattiva pubblicità, perché nessuno ha conoscenza di questo passato storico”.

L’islam come identità

Ad avvicinare i radicalizzati spagnoli al mondo del fondamentalismo islamico è (spesso) l’ambiente in cui si trovano una volta arrivati in Spagna, luoghi dove c’è esclusione sociale e dove è molto difficile scegliere se appartenere a una o all’altra cultura (quella di arrivo o quella della famiglia). Secondo gli esperti, infatti, i giovani che si radicalizzano non si sentono parte né del mondo nuovo in cui crescono, né di quello delle origini ed è lì che il fondamentalismo si inserisce, perché diventa l’occasione di riaffermare una loro identità. Ed è proprio sul concetto di identità su cui fanno leva i predicatori che, dalle carceri a internet, si infilano nelle vite dei più fragili e le cambiano. Emilio González Ferrin, islamologo e docente all’università di Siviglia, conferma che spesso l’identità islamica è utilizzata come una forma di riscatto sociale: “In qualche occasione, tra i miei allievi, c’è stato chi si è presentato prima come musulmano che come studente e questo ha un enorme significato. La religione è, oggi, una questione identitaria, molto più di quanto accadeva negli anni Settanta. Poi i ghetti, comuni a tutte le metropoli del mondo, la povertà, la discriminazione e la facilità con cui gli estremisti si inseriscono nei social network fanno il resto”. E così accade che se si ha un cognome di origine araba, spesso, risulta più complesso trovare un impiego o una casa e si avvia il meccanismo dell’isolamento. Che può avere conseguenze molto gravi.

I luoghi più a rischio

E anche se non tutti i radicalizzati provengono dalle periferie, a tracciare un minimo comune denominatore è proprio questo senso di solitudine sociale. “Gli autori dell’attentato del 17 agosto 2017 a Barcellona non vivevano nei bassifondi, né in grandi città, ma provenivano da un paese di 10mila abitanti (Ripoll, ndr). Tuttavia sostenevano di sentirsi profondamente emarginati”, conferma Teixidor Colomer. I luoghi più a rischio, infatti, per la scrittrice, si individuano in quelle città dove si concentra una maggior densità di immigrati di fede islamica, spesso isolati dal resto della comunità: “Questo lo abbiamo notato soprattutto a Ceuta e a Melilla, due degli epicentri dei processi di radicalizzazione spagnola. È interessante la vicinanza con il triangolo marocchino Castillejos-Tangeri-Tetouan, da dove si mobilitarono un migliaio di combattenti verso Siria e Iraq, nel 2012. È anche possibile, e ci sono operazioni di polizia che lo attestano, che la jihad addestri i combattenti in quei luoghi per poi arrivare in Spagna e all’Europa continentale”. Ma anche la “Spagna europea” ha le sue criticità: la Catalogna, per esempio,rispetto ad altre regioni, continua a rappresentare un problema concreto, soprattutto quando si parla di periferie (Girona, ne è un esempio). E non è casuale che il secondo attentato di matrice islamica, in Spagna, si sia concretizzato proprio a Barcellona, nel 2017. “Quell’attacco era stato premeditato per il significato e l’eco che l’abbattimento della Sagrada Familia (il progetto iniziale, ndr) avrebbe avuto, in particolare come attrazione turistica”, ha spiegato Teixidor Colomer.

L’Andalusia e il suo significato simbolico

In generale, oggi, i fondamentalisti islamici considerano l’Andalusia un punto strategico per entrare in Europa illegalmente, passando inosservati e, secondo gli studiosi, non è una casualità che Abdel Majed Bary sia stato trovato proprio ad Almeria. Nella narrazione dell’estremismo islamico, secondo Teixidor Colomer, il passato “moresco” e la riconquista dell’Andalus è semplicemente un elemento aggiuntivo al racconto jihadista: “Al Andalus si mantiene vivo nella storia, però il messaggio fondamentalista è globale. Non credo che questo elemento accentui il proselitismo in Spagna: l’antica Andalusia musulmana fa parte di un immaginario collettivo molto forte che, però, si aggiunge soltanto al resto delle argomentazioni jihadiste, utili a reclutare nuovi seguaci e sostenitori”. Anche secondo la filologa Bramon, “al Andalus” non ha a che fare solo con la storia della Spagna o dei “moriscos“, ma anche con città come Nizza e Tolosa, per esempio. “Bisogna sempre ricordare che l’attuale Andalusia è una cosa, mentre al Andalus è un’altra: storicamente, quest’ultimo comprendeva tutta la Spagna ed è necessario comprendere che fu Girona, Narbona, ma anche Carcassona, per esempio”, spiega la professoressa. “Il primo a creare, ad hoc, il ricordo vivissimo dell’Andalus musulmano, in età contemporanea, fu Muhammar Gheddafi, che si fece fotografare con una mappa che colorava tutto il Nordafrica e la Penisola iberica di verde, senza però considerare la Catalogna parte di quel territori. A conferma della sua ignoranza”, spiega ancora la docente. Che aggiunge: “Lo stesso ricordo venne adottato da al Qaeda e dallo Stato islamico, ma né l’uno, né l’altro risvegliano simpatia in questo senso, neanche tra i musulmani che vivono in Spagna o tra i nuovi convertiti. Certamente, ai jihadisti piacerebbe avere questo luogo, ma sanno anche che questo non può accadere”. Per lo scrittore spagnolo Lorenzo Silva, giallista ed esperto di temi legati all’islam, l’importanza attribuita all’Andalusia è più poetica che concreta: “Questa argomentazione è stata usata più spesso da al Qaeda che, per un periodo, aveva chiamato il proprio organo di stampa con lo stesso nome. Indubbiamente è vero che buona parte del territorio spagnolo faceva parte di un califfato e che loro lo rivendicano, ma la migrazione novecentesca ha sempre riguardato persone che si spostavano per motivi economici, arrivati con il visto turistico, non certo per la riconquista dell’Andalus”.

Il jihadismo spagnolo non è l’Eta

E se l’eversione, per tanti anni, in Spagna è stata accostata quasi soltanto alle azioni dell’Eta, l’organizzazione armata terroristica basco-nazionalista separatista, sciolta nel 2018, dall’attentato a Madrid dell’11 marzo 2004 all’ultimo dello Stato islamico dieci anni dopo, lo spazio è stato preso dal fondamentalismo islamico. “La dimensione di Daesh e di al Qaeda presuppone una minaccia globale, dove gli individui mirano a morire o a uccidere in un’azione fanatica. Una doppia circostanza che non avevamo visto con l’Eta”, afferma Teixidor Colomer. “Eta era un’organizzazione del XX° secolo, con radici del XIX° e il suo è un immaginario nazionalista. La sua struttura era gerarchica, piramidale, molto diversa da quella dei fondamentalisti islamici, in particolare per quello che riguarda lo Stato islamico. Le cellule jihadiste e i loro appartenenti agiscono in autonomia. Al Qaeda e Daesh funzionano grazie alla loro struttura a ragnatela e all’uso di internet. Inoltre i militanti di Eta si nascondevano, cosa che non si può dire dei fondamentalisti islamici”, conclude Silva.

Per la traduzione di testi e interviste, ha collaborato Giulia Di Norcia





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