Il presidente francese Emmanuel Macron ha rischiato un incidente diplomatico con la Bosnia-Erzegovina a inizio novembre quando, durante un’intervista rilasciata alla rivista Economist, ha definito il Paese balcanico “una bomba a orologeria”, con chiaro riferimento al problema dei jihadisti di ritorno dal teatro di guerra siriano-iracheno.

Un’affermazione che ha mandato su tutte le furie i bosniaci, con tanto di richiamo dell’ambasciatore francese da parte dell’attuale presidente Zeljiko Komsic e con il portavoce della Comunità islamica di Bosnia, Muhamad Jusic, che ha ricordato a Macron come dalla Bosnia siano partiti “soltanto” 300 jihadisti, mentre dalla Francia più di 1900.

Soddisfatto invece delle parole di Macron il rappresentante serbo alla presidenza bosniaca, Milorad Dodik, che ha affermato come in Bosnia chiunque sollevi il problema dei jihadisti venga immediatamente accusato di voler creare divisione nel Paese.

Effettivamente, quanto affermato da Dodik è poi stato confermato dalle dichiarazioni del rappresentante bosniaco alla presidenza, Sefik Dzaferovic:

l problema principale della Bosnia-Erzegovina sono le forze che vogliono la divisione della Bosnia e il signor Macron lo sa bene. Parte della colpa è della comunità internazionale

Gli elementi interessanti che emergono da tale questione sono due: in primis è evidente come le divisioni in Bosnia siano intrinseche al Paese e anche a livello istituzionale, visto che nemmeno i rappresentanti della presidenza riescono a condividere una visione comune sul problema dei jihadisti.

In secondo luogo non si può non criticare il paragone fatto dal portavoce della Comunità islamica, Muhamad Jusic. È vero infatti che dalla Bosnia sono partiti tra i 300 e i 350 jihadisti mentre dalla Francia più di 1900, ma è altrettanto vero che la Bosnia ha una popolazione di 3 milioni e mezzo mentre la Francia di 66 milioni. Il paragone non calza dunque molto.

La situazione interna in Bosnia-Erzegovina

Il “Country Report on Terrorism” per l’anno 2018, pubblicato dal Dipartimento di Stato americano, evidenzia un quadro piuttosto problematico per quanto riguarda la Bosnia, sia sul piano giuridico che investigativo.

La Sipa (State Investigation and Protection Agency) avrebbe a disposizione soltanto 25 uomini che lavorano su indagini legate al terrorismo, tanto che nel 2017 il ministero per la Sicurezza aveva proposto di incrementare il numero a 50 unità, una misura però non ancora completata a causa della lentezza nella formazione del nuovo esecutivo dopo le elezioni dell’ottobre 2018. In aggiunta, anche in Bosnia, così come in altri paesi dell’area, vi è un problema di scarsa collaborazione tra agenzie e forze di polizia, in questo caso tutto aggravato da persistenti tensioni etniche.

Sul piano giuridico, nonostante la pena minima per chi si macchia del reato di terrorismo sia stata incrementata da cinque a otto anni, i magistrati hanno comunque la possibilità di ridurre le pene detentive a un anno circa, con tutti i relativi rischi per la sicurezza, considerando anche gli scarsi progressi fatti sul piano della de-radicalizzazione.

Nel contempo però il problema della radicalizzazione islamista in Bosnia persiste, con l’ideologia wahhabita e salafita ampiamente diffuse in quelle enclave dove soggetti con tuniche e lunghe barbe fanno da padroni. I centri culturali islamici, le madrasse e le moschee, prevalentemente finanziate da Arabia Saudita e Turchia, sono in aumento: “Non riusciamo a costruire chiese, mentre negli ultimi anni sono nati più di 70 centri di culto musulmano solo a Sarajevo”, ha reso noto l’Arcivescovo di Sarajevo, Vinko Puljic, lamentando anche una disparità di trattamento nei confronti dei cattolici.

Una cosa è certa, la Bosnia è diventata oggetto di forte influenza da parte dei sauditi, con un progressivo incremento degli investimenti da parte del Regno che a fine 2017 è arrivato a 22 milioni di dollari statunitensi (secondo quanto reso noto dall’agenzia per la promozione degli investimenti Esteri di Bosnia). L’Arabia Saudita è inoltre il più grosso acquirente di armamenti bosniaci, con ben 42 milioni di dollari spesi (tra armamenti e munizioni) nel 2018. A ciò va ad aggiungersi il turismo proveniente dal Regno che ha portato più di 400 mila sauditi soltanto nei primi mesi del 2019 e con l’introduzione, sempre quest’anno, di voli diretti tra Sarajevo e Riad ad opera della compagnia FlyBosnia. Alcune zone di Sarajevo sono frequentate esclusivamente da turisti sauditi e capita frequentemente di imbattersi in donne col niqab nero e uomini dalle lunghe barbe.

Un “boost” economico di non poco conto per un Paese istituzionalmente fragile ed economicamente compromesso, con un tasso di disoccupazione del 55.5% e con quello giovanile che si aggira attorno al 48%. Investimenti che hanno però una condizione, ovvero l’influenza ideologico-religiosa sull’Islam locale, come illustrato da Leila Bicakcic del Center for Investigative Reporting di Sarajevo.

Non è invece di tale avviso Muhammer Stulanovic, preside della Facoltà Islamica di Pedagogia di Bihac, istituto costruito con finanziamenti provenienti dall’Arabia Saudita e con tanto di targa di ringraziamento nei confronti del sovrano saudita Salman bin Abdulaziz al-Saud. Secondo Stulanovic infatti, in Bosnia non vi sarebbe alcuna interferenza saudita e il tanto criticato wahhabismo non sarebbe altro che propaganda ostile perpetrata contro i bosniaci dall’Occidente e dagli sciiti.

L’Arabia Saudita non è però la sola ad avere mire espansionistiche in Bosnia, con la lunga mano di Recep Tayyip Erdogan particolarmente attiva in ambito politico attraverso rapporti stretti con il partito islamista Sda, guidato da Bakir Izetbegovic, figlio dell’ex presidente Alija Izetbegovic (1990-1996) e considerato vicino alla Fratellanza Musulmana. Fu proprio Alija Izetbegovic, durante il conflitto, a permettere l’ingresso in Bosnia della famigerata unità jihadista araba “el-Mudzahid”, formata da tagliagole reduci dall’Afghanistan e molti dei quali legati a gruppi terroristici egiziani, tunisini, algerini ma anche ad al-Qaeda.

Lo scorso luglio Erdogan si era recato a Sarajevo per il South East European Countries Cooperation Process (Seecp) Summit dopo che l’anno precedente aveva organizzato un mega-comizio nella capitale bosniaca in vista delle elezioni presidenziali tenutesi in Turchia a giugno del 2018. È evidente come Erdogan stia cercando di utilizzare un “soft power” neanche troppo “soft” che coinvolge business, politica, attività culturale e tutto in salsa islamico-ottomana.

Il rientro dei jihadisti

Vi è poi il problema legato ai foreign fighters bosniaci in fase di rientro. Lo scorso 20 dicembre la Sipa ha fermato un gruppo di 25 persone (sette uomini, sei donne e dodici bambini) giunti all’aeroporto di Sarajevo con un volo charter proveniente dalla Siria. I sette individui sono stati identificati come Emir Alisic, Sead Kasupovic, Miralem Berbic, Jasmin Keserovic, Hamza Labidi, Armen Dzelko e Muharem Dunjic (gli ultimi due, trattenuti dalla Sipa per ulteriori accertamenti). Le donne e i bambini sono invece stati sottoposti a una serie di visite mediche e psicologiche.

Lo scorso novembre, fonti del ministero per la Sicurezza bosniaco avevano ipotizzato la presenza di circa 260 bosniaci attualmente detenuti nei campi in Siria, tutti cittadini che dovranno essere rimpatriati. Un rischio serio considerate le carenze dell’area balcanica (ed europea in generale) in ambito di de-radicalizzazione e reinserimento sociale. Allo stato attuale i tribunali bosniaci hanno condannato 25 individui a un totale di 47 anni e due mesi di reclusione per essersi recati a combattere in Siria o per aver reclutato jihadisti.

Bisogna però vedere se le istituzioni bosniache saranno in grado di gestire il rientro di foreign fighters, il loro reinserimento e nel frattempo contrastare il fenomeno della radicalizzazione islamista e jihadista che corre sia sul web che in alcune moschee e madrasse della Bosnia. Un compito non semplice in un Paese ancora caratterizzato da forti tensioni inter-etniche e in cui la religione rischia di diventare un ulteriore elemento scatenate per un’escalation violenta. Insomma, forse stavolta Macron non ha tutti i torti quando definisce la Bosnia una “bomba ad orologeria”, seppur innescata da attori esterni.





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