A meno di ventiquattro ore dall’attentato che ha insanguinato Istiklal Caddesi a Istanbul, Ankara sembra già avere tutte le risposte: una donna di nazionalità siriana è stata arrestata questa mattina insieme ad altre 46 persone, tutte accusate di aver preso parte all’attentato che ieri che ha sconvolto la Turchia.
Istiklal Caddesi e Piazza Taksim sono state a lungo i bersagli preferiti dalle organizzazioni terroristiche che prendono di mira la Turchia. La prima è una delle strade più trafficate del Paese, ricca di caffè, ristoranti e attività commerciali che l’hanno resa una popolare destinazione turistica. Un attacco come quello di domenica è quindi un duro colpo per il prestigio del Paese, per un settore turistico che si sta riprendendo dopo essere quasi crollato a causa del coronavirus, e per la postura politica del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
Il caso è (già) chiuso?
Secondo gli investigatori turchi, sarebbero tutte legate all’organizzazione terroristica separatista curda Pkk/Ypg. Tutto abbastanza chiaro, dunque. Forse anche troppo.
Secondo quanto annunciato dal ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, la persona ritenuta responsabile di aver collocato l’ordigno si chiama Ahlam Albashir, una cittadina siriana. “La nostra valutazione è che l’ordine per l’attacco terroristico mortale sia arrivato da Ayn al Arab (Kobane) nel nord della Siria, dove il Pkk ha il suo quartier generale siriano”, ha affermato Soylu. Tuttavia, il Pkk non ha-per ora-rivendicato l’attacco.
Quando si tratta della Turchia è lecito chiedersi chi stia giocando contro chi. Ma soprattutto chi possa trarre vantaggio da un atto del genere. Gli attacchi terroristici non sono purtroppo una novità né per Istanbul né per la Turchia, ma questa volta le coincidenze temporali appaiono quantomeno sinistre. E le piste che possono spiegare la regia di questo attentato seguono due binari opposti che hanno fatto quasi subito escludere l’Isis: lo Stato islamico è noto per rivendicazioni molto rapide, se non istantanee, e per l’utilizzo di kamikze, di sesso maschile pergiunta.
L’ipotesi 1: screditare Erdogan
La prima pista porterebbe ad una regia volta a screditare Erdogan: il funambolo che saltella tra l’est e l’ovest, che ricuce i rapporti con la Nato ma che non rinnega Vladimir Putin. Dallo scoppio del conflitto in Ucraina, il presidente turco ha cercato di ritagliarsi il ruolo di ago della bilancia nella complessa partita dei negoziati e delle transazioni sul gas. È stata più che evidente, in questi mesi, il tentativo a tutti i costi di portare geograficamente la diplomazia in quel di Ankara, ed intestarsi finalmente l’operazione che gli valrebbe nuovamente la fiducia di amici e alleati. L’attentato, una manciata di ore prima di volare al G20 di Bali potrebbe minare l’affidabilità del sistema turco, ipotetico hub di pace e di gas. Ma soprattutto, la credibilità di un leader che smania per un negoziato e che non sa nemmeno tenere al sicuro i propri cittadini.
L’attentato, tra l’altro ha prestato il fianco ad un nuovo attacco a Washington dopo un periodo di relativa distensione: “Non accettiamo le condoglianze dell’ambasciata degli Stati Uniti”. Durissime le parole del ministro degli Interni turco, Suleyman Soylu. “Se non avessimo arrestato l’attentatore oggi sarebbe fuggita in Grecia, – ha detto il ministro – per questo non possiamo accettare le condoglianze dell’ambasciata americana”. Le parole di Soylu arrivano dopo che le indagini hanno appurato il legame presunto tra l’attentato e i separatisti curdi del Pkk/Ypg, che per anni hanno ricevuto sostegno dagli Stati Uniti, che ha causato una infinita serie di polemiche con il governo turco e portato alle stelle le tensioni tra il presidente Erdogan e la Casa Bianca. “Si possono evitare 200 attentati, ma basta una bomba a uccidere. Abbiamo individuato e arrestato anche il mandante. C’è bisogno di discutere della nostra alleanza. Noi non pugnaliamo nessuno alle spalle, ma la tolleranza verso chi ci colpisce alle spalle c’è sempre. Istiklal è la nostra figlia prediletta, abbiamo recepito il messaggio e risponderemo con forza”, ha tuonato Soylu.
Inoltre, Fahrettin Altun, direttore delle comunicazioni del presidente Erdogan, ha aggiunto poi che gli attacchi terroristici sarebbero conseguenze diretta o indiretta del sostegno di alcuni Paesi alle organizzazioni terroristiche. Qualunque sia la matrice dell’attentato, un’altra domanda sorge spontanea. Perché questa dura invettiva contro gli Usa in un momento così delicato?
L’ipotesi n.2: aumentare la repressione
La seconda pista, invece, è tutta interna alle dinamiche turche. L’atteggiamento del governo nelle ultime ore è stato quello di sempre: la mancanza di notizie sui media filo-governativi turchi domenica sera illustra come la Turchia stia elaborando questo incidente. I siti dei social media hanno subito limitazioni ed è chiaro come le autorità stiano cercando di impedire la documentazione civile e la diffusione di informazioni. Il Consiglio supremo della radio e della televisione ha imposto divieti simili in passato, a seguito di attentati, incidenti e alcune questioni politiche. Le elezioni del prossimo anno sono un’ottima ragione per neutralizzare i media e le piazze, garantendosi una transizione agevole e senza intoppi verso il 2023, instillando nei turchi la bontà e le garanzie dello status quo.
Non è un mistero che Erdogan veda nemici ovunque e che viva ossessionato dallo spettro curdo. La diretta conseguenza dell’attacco di ieri è stata una sequela di arresti che, a caldo, possono avere anche un giustificazione. Ma c’è da scommettere che in nome dell’emergenza, da domani, la Turchia dovrà fronteggiare una deriva securitaria ulteriore, a danno dei media, dei cittadini, dei partiti nonché dei curdi e delle loro autonomie.
Gli stessi curdi che sono oggetto del mercanteggiare tra Erdogan e la Nato. L’ultimo attacco soddisferebbe le sue richieste affinché l’Europa – e in particolare la Svezia e la Finlandia, che stanno aspettando l’approvazione finale della Turchia per entrare a far parte della Nato – estradino attivisti curdi e chiudano i centri di comunicazione e assistenza curdi. Allo stesso tempo, mostra che anche la sua strategia di erigere uno scudo difensivo all’interno della Siria non può garantire completamente la sicurezza dei turchi.
Nulla vieta, al di là delle ricostruzioni intriganti, che possa trattarsi davvero di una vendetta del Pkk, volta a minare gli equilibri di Erdogan nel momento più delicato della sua carriera politica. Ma quest’ipotesi, che resta ancora senza rivendicazione, si presta a molteplici lati oscuri, che solo nei prossimi mesi potranno-pur se vagamente-rischiararsi.