La sconfitta delle ultime sacche jihadiste nel villaggio di Baghouz, nel sud-est della Siria, e la relativa fine dello Stato islamico come entità territoriale sono state accolte con gioia da tutto il mondo. La distruzione del Califfato è stata certamente una tappa importante nella lotta al fondamentalismo islamico, ma dopo mesi c’è una questione fondamentale che resta ancora senza soluzione: cosa fare dei miliziani dell’Isis e delle loro famiglie.

Al momento il problema grava principalmente sulle spalle dell’Amministrazione Autonoma della Siria del nord-est, che non a caso chiede a gran voce la collaborazione della comunità internazionale e una presa di responsabilità da parte di tutti quei Paesi che hanno visto i loro cittadini unirsi alle fila dello Stato islamico. Tra le richieste avanzate dai curdi vi è anche la creazione nel Rojava (Kurdistan occidentale) di un Tribunale internazionale, ma difficilmente un simile progetto verrà realizzato.

Il problema dei jihadisti e delle loro famiglie

Secondo le ultime stime, sono almeno 800 i combattenti stranieri detenuti in territorio siriano, ma gli Stati occidentali che si sono fatti avanti per riportarli in patria insieme alle loro famiglie rappresentano ancora un numero molto esiguo. Tra questi spicca il Kosovo, Stato autoproclamatosi indipendente nel 2008 e nato dalle ceneri dell’ex Jugoslavia.

Il problema però non riguarda solo chi ha imbracciato le armi a sostegno dello Stato islamico. Le forze curdo-arabe infatti hanno anche la responsabilità di una sezione specifica del campo profughi di Al Hol – nota come “Annex” – che ospita le famiglie dei miliziani: parliamo di più di 10 mila persone tra donne e bambini di origine straniera intrappolate nel limbo siriano, il cui futuro è ogni giorno più incerto.

La richiesta avanzata da parte dell’Amministrazione del Rojava è che ogni Paese si faccia carico dei propri cittadini arrivati in Siria per unirsi al Califfato, o per lo meno delle loro famiglie. Una richiesta che non ha trovato particolare seguito in Europa, come dimostra la sorte di Shamima Begum, a cui è stata revocata la cittadinanza britannica, o quella dei jihadisti francesi condannati a morte in Iraq tra le proteste del Governo di Parigi.

Nonostante il dibattito in Europa sulla sorte degli europei che hanno – volontariamente o meno – vissuto sotto la bandiera del Califfato sia acceso, non è stata trovata ancora alcuna soluzione. Gli unici ad aver optato per un approccio diverso alla questione sono stati al momento gli Stati balcanici, che hanno avviato il rimpatrio dei loro cittadini detenuti in Siria, combattenti compresi.

 Il caso del Kosovo

Un esempio su tutti è quello del Kosovo, che ad aprile del 2019 ha riportato indietro 110 kosovari catturati nel Paese mediorientale. Come dichiarato dal ministro della Giustizia, il Governo “non si fermerà fino a quando ogni cittadino del Kosovo non sarà tornato a casa” e ha messo in campo un piano per riabilitare e reintegrare i rimpatriati con lo scopo dichiarato di sradicare il fondamentalismo. “Non possiamo permetterci che i nostri cittadini diventino una minaccia per l’Occidente. Faremo tutto ciò che è in nostro potere per assicurarci che chi ha commesso dei crimini paghi per le sue azioni secondo la legge. Non ci sarà alcuna amnistia per chi ha commesso reati legati al terrorismo, né uomini né donne”.

Secondo le stime delle autorità, i kosovari che si sono uniti all’Isis in Iraq e Siria sono circa 400 e almeno 70 avrebbero perso la vita in battaglia, mentre 150 tra donne e bambini sono stati catturati dalla caduta dello Stato islamico in Siria.

Il Governo di Pristina, come detto, non si è limitato a rimpatriare i suoi cittadini, ma ha anche messo a punto un piano per la loro reintegrazione nella società attraverso un programma creato con il supporto degli Stati Uniti e che prevede la collaborazione delle autorità centrali e locali.

Le donne  e i loro figli tornati dalla Siria sono affiancati da psichiatri, psicoterapeuti, imam e mualime (predicatrici donne), e partecipano a incontri regolari con la comunità di appartenenza per favorirne il rientro in società. Il programma psichiatrico, come spiegato dal Financial Time, comprende visite a casa, sessioni individuali e di famiglia, attività all’aperto e un lungo processo di integrazione che passa anche per la scuola e corsi specifici.

Nonostante il 90 per cento della popolazione kosovara sia musulmana, il Paese balcanico ha una forte impronta secolare e i cittadini radicalizzati che si sono recati in Siria sono spesso isolati dal resto della società. Per questo l’intervento dello Stato si sta rivelando fondamentale, al fine di scongiurare una maggiore radicalizzazione dei soggetti tornati dal Medio Oriente e che, se lasciati a loro stessi, potrebbero in futuro rappresentare una minaccia per il loro Paese e per l’Europa.