Il jihadismo fa breccia in quei Paesi dove le istituzioni sono deboli o assenti. Questo è un dato di fatto che trova conferme nello scenario bosniaco e ceceno degli anni Novanta, così come in Afghanistan, in Somalia e nell’Iraq post 2003, luogo di nascita ed evoluzione di ciò che diverrà poi l’Isis. Esattamente come un virus, il jihadismo cerca spazi dove le “difese immunitarie” sono basse e si infiltra per poi insediarsi e proliferare.

Analizzando attentamente il fenomeno dalle sue origini in concomitanza con la fine del conflitto afghano-sovietico nel 1989, quando la “resistenza” anti russa evolse in jihadismo globale, noteremo come nel corso del tempo, nonostante tutte le campagne messe in atto da vari paesi e coalizioni, il fenomeno della “guerra santa” non verrà mai distrutto ma al massimo ridimensionato.

Ciò è dovuto al fatto che il jihadismo ha un’elevata capacità di trasformazione a seconda del contesto di riferimento:

è adattabile, dinamico, mutevole e sa quando rimanere latente (anche per lunghi periodi e quando colpire)

È per questo motivo che non bisogna cadere nell’errore di pensare che la disfatta del sedicente Stato islamico in Siria equivalga a una riduzione del rischio. In primis perché i jihadisti punteranno non solo a mantenere sacche di resistenza, ma soprattutto a trovare zone sicure dove riorganizzarsi, plausibilmente nelle zone del confine meridionale tra Siria e Iraq per poi ripartire con l’offensiva.

Questo è però soltanto un primo aspetto direttamente legato all’epilogo (se così si può dire) del conflitto siriano. Vi è poi un fattore ancor più preoccupante, ovvero quello legato all’espansione del jihadismo in Libia e in Africa subsahariana, un fenomeno con obiettivi plausibilmente più a medio-lungo termine. È proprio in tale contesto infatti che il jihadismo globale punta a infiltrarsi con l’obiettivo di stabilire roccaforti e rifugi.

Gli elementi che portano i jihadisti ad interessarsi all’Africa, in particolare la fascia che dal Mali arriva fino al Corno d’Africa, sono numerosi: gli scarsi controlli alle frontiere che permettono ampia libertà di movimento, i traffici illeciti (merce di vario genere, esseri umani) dai quali lucrare, la possibilità di raggiungere facilmente le coste della Libia, trampolino di lancio verso l’Europa ma anche lo scarso controllo del territorio da parte dei paesi in questione.

Lo scorso 18 aprile l’Isis aveva annunciato la creazione della nuova provincia dell’Africa Centrale, un elemento che la dice lunga sugli obiettivi di Al Baghdadi. Inoltre, fazioni di Boko Haram risultano operanti in Nigeria, Camerun, Niger e Chad, mentre Jamat Nasr al-Islam waal-Muslimin e Isis nel Gran Sahara persistono nel Sahel. In Somalia i jihadisti di al-Shabab controllerebbero circa un quarto del territorio, ma nel Paese sono presenti anche gruppi allineati all’Isis.

Vi è poi il gigantesco problema libico e non è certo un caso che Colin Clarke, analista presso il Soufan Center e autore del libro After the Caliphate, definisce la Libia “la più pericolosa roccaforte dell’Isis nel futuro prossimo”  in quanto Stato fallito divenuto punto focale e crocevia per jihadisti di ogni genere.

Clarke prosegue poi: “Due attentati mortali avvenuti in Europa sono già stati ricollegati ai jihadisti in Libia. Il pericolo proveniente da questo paese va ben oltre l’Isis; trattasi di una combinazione di potenziali minacce che portano la Libia a tramutarsi in una roccaforte jihadista equiparabile a ciò che era l’Afghanistan prima dell’11 settembre 2001”.

Di parere simile anche Aaron Zelin, analista del Washington Institute ed esperto di Nord Africa, secondo cui la Libia è il luogo più probabile dove l’Isis potrebbe cercare di replicare il modello già collaudato in “Siraq”.

I rischi per l’Europa e per l’Italia

La facilità con la quale i jihadisti riescono a proliferare in Libia, la porosità dei confini tra Paesi africani e il flusso incontrollato di immigrati irregolari in partenza dalle coste libiche sono elementi che mettono a serio rischio la sicurezza dell’Italia e dell’Europa. Non a caso tra aprile e giugno del 2018, a Napoli venivano arrestati i gambiani Sillah Ousman e Alagie Touray. I due avevano partecipato a un addestramento militare in un campo mobile libico dove si addestrano i futuri kamikaze dell’Isis ed erano pronti a compiere attentati in Europa. Nel dicembre del 2016 erano saliti su un barcone diretto in Italia ed erano arrivati sulle coste siciliane, a Messina. Touray era stato trasferito a Napoli; Sillah in Puglia. Del resto anche Anis Amri, l’attentatore del mercatino di Natale del dicembre 2016 (poi ucciso a Sesto San Giovanni) era arrivato a Lampedusa nel 2011 a bordo di un barcone proveniente dalla Tunisia.

Oggi è possibile individuare tre tipologie di attori che mettono a rischio la sicurezza dell’Europa: jihadisti e simpatizzanti infiltratisi tramite le rotte dell’immigrazione clandestina; jihadisti “europei” di ritorno nei propri Paesi d’origine (inclusi quelli delusi dall’esperienza dello Stato islamico ma ancora fedeli al jihad); individui radicalizzati o potenzialmente tali (cittadini di Paesi europei e stranieri legalmente residenti in Ue).

Attori che potrebbero attivarsi individualmente, oppure tramite cellule o piccoli gruppi “spontanei”, magari ispirati tramite propaganda virtuale o tramite predicatori attivi in loco. Sarebbe inoltre ingenuo pensare che Isis e Al Qaeda non abbiano delle proprie reti e cellule dormienti in Europa.

Non dimentichiamo che il jihadismo globale può restare latente anche per tempi lunghi prima di manifestarsi.

Tornando al concetto iniziale di infiltrazione jihadista in contesti dove le istituzioni sono carenti o assenti è bene tener presente che anche lo scarso presidio dei propri confini (terrestri o marittimi che siano) e l’incapacità o la non volontà di filtrare adeguatamente gli ingressi indicano una pericolosa fragilità istituzionale e l’Italia non è certo nella condizione migliore in questo momento. Senza un’adeguata strategia volta a bloccare gli arrivi di flussi illegali dalla rotta africana i rischi d’infiltrazione jihadista sono elevatissimi.