Il Califfato è crollato e l’Isis è stato sconfitto. Questo è quanto apparentemente il mondo sa del destino del sedicente Stato islamico. Ma la realtà è molto più complessa rispetto a quanto appare a una prima lettura delle carte e delle analisi geopolitiche. Ci sono infatti molti risvolti secondari che rivelano invece come Daesh continui a essere pulsante, come una ferita infetta, e abbia ancora l’intonazione di un canto di sirene per ex combattenti jihadisti e foreign fighters europei. E uno degli aspetti più inquietanti di questa resilienza islamista è emerso da un’inchiesta pubblicata dal settimanale Jeune Afrique che rivela come oggi molti prigionieri di Daesh, reclusi nei campi di detenzione in Siria, fuggano dai centri di prigionia, affidandosi a dei trafficanti, per raggiungere nuovi Paesi dove il jihad cova sotto le ceneri o per dar vita a sacche di resistenza islamica in alcune zone della Siria e dell’Iraq.

Il prezioso lavoro giornalistico realizzato da Ines Daif e Stephane Kenech si concentra in particolar modo sulle mogli degli jihadisti e sui loro figli. Donne, in diversi casi europee che, dopo aver abbandonato il vecchio continente per andare ad allargare le fila del Califfato, sono state imprigionate ma non hanno abiurato il loro passato di mujhaidin, anzi continuano a sognare un futuro da guerrigliere o martiri tanto che le loro evasioni dai campi di prigionia hanno come ultimo approdo soprattutto il Pakistan, l’Afghanistan o l’Iraq.

L’indagine ha avuto inizio dopo un SOS lanciato nel 2020 da Jean Charles Brisard, presidente del CAT, Centre d’analyse du terrorisme, uno dei centri di ricerca più professionali d’Europa in materia terrorismo e formazioni jihadisti, che ha fatto sapere all’opinione pubblica internazionale che Souad Benalia, francese e ex moglie di un veterano jihadista reduce dell’Afghanistan e morto in Siria, era sparita dal campo di detenzione di Al Hol. Un campo controllato dalle Forze Democratiche Siriance, un’alleanza di milizie a maggioranza curda costituitesi formalmente nel 2015. È stata questa notizia a spingere i due giornalisti di Jeune Afrique a indagare e cercare di capire come e dove fosse sparita la vedova jihadista.

I foreign fighter di ritorno (Infografica di Alberto Bellotto)
I foreign fighter di ritorno (Infografica di Alberto Bellotto)

I giornalisti si sono quindi messi in moto e si sono recati nel campo di Al Hol in Siria, e qui sono riusciti ad avere una dichiarazione tanto preziosa quanto inquietante: ”Vi confermo che non è stata la sola donna ad aver lasciato il campo in quel periodo, ma altre due jihadiste prigioniere, di origine francese, negli stessi giorni sono fuggite”. E a dichiararlo è stato il passeur stesso che ha aiutato le donne a fuggire.

Dopo questa dichiarazione i cronisti hanno iniziato a indagare per capire la portata del fenomeno. Quello che è emerso è che nato un nuovo business per i trafficanti di uomini, arricchitisi prima nel portare i profughi al di là delle frontiere e ora riciclatisi nel fare lo stesso lavoro ma non più per le vittime ma per i carnefici. Leggendo i dati del report si scopre che per le mogli di combattenti e martiri di Daesh il contrabbandiere prende tra i 5.000 e i 7.500 dollari se la donna è irachena, e prende dai 10.000 ai 15.000 dollari se è straniera. A dichiaralo ai giornalisti è un passeur che ha voluto però restare anonimo e che poi ha proseguito dicendo: ”I trafficanti, come me, si mettono d’accordo con una delle guardie del campo e la corrompono pagandogli un’ ingente somma perché lasci fuggire le prigioniere e talvolta veniamo contattati direttamente dai parenti del membro di Daesh che offrono anticipatamente una cospicua somma perché si faccia evadere il parente. I contrabbandieri sono persone che hanno molte connessioni”.

Quello che emerge ora, leggendo le dichiarazioni, è che le rotte variano in base alla destinazione finale dei fuggitivi. E ora una nuova via è stata aperta, quella che attraverso il nord dell’Iraq che, da un lato è molto pericolosa perché, qualora dovessero essere intercettati, i fuggitivi rischierebbero la pena di morte ma dall’altro lato permette di raggiungere più agilmente i territori dove è ancora presente Daesh come nelle regioni oltre il fiume Khabur, nella provincia di Saladin e in quella di Anbar. E inoltre, si viene a sapere leggendo il testo del reportage, che molti degli evasi poi provano a riparare in Afghanistan dal momento che ci sono cellule dormienti di ISIS che stanno cercando di rafforzarsi in modo silenzioso e latente in previsione del ritiro delle forze della coalizione internazionale.

Il responsabile del campo di Al Hol, parlando con i due cronisti ha spiegato che una lista e un controllo completo di tutti i prigionieri non c’è e che le autorità che amministrano il penitenziario sono al corrente dell’evasione di diverse prigioniere europee, non solo francesi ma anche svedesi, che sono fuggite per unirsi ai gruppi di Daesh. L’evasione non è una fuga immediata è fatta di tante tappe e tante ingranaggi da ungere. Guardie di frontiera, autisti, miliziani e cittadini che mettono a disposizione le proprie case nei punti di frontiera dove nascondono i latitanti di giorno e aspettano il calare della notte per fare loro attraversare i confini. Ma non sono però soltanto le frontiere porose del Medio Oriente ad essere interessate da questo flusso latente di evasi e terroristi in fuga.

C’è anche una rotta che interessa da vicino l’Europa e a far emergere l’inquietante particolare è la testimonianza ottenuta da un attivista siriano che sulle colonne del settimanale ha aggiunto: ”Alcuni fuggiaschi fanno un altro percorso che non mira ad est ma ad ovest. Attraversano la Turchia e poi da Iskenderun si dirigono a Port Said, in Egitto, in traghetto. Alcuni si fermano in Egitto altri invece proseguono e da lì si dirigono dapprima in Maghreb e infine in Europa”.