Si sono sempre dimostrati più abili degli altri nell’occupare gli spazi vuoti lasciati dalle crisi economiche, dalla povertà e dall’emarginazione. È un tratto caratteristico dello Stato islamico, ovunque nel mondo. Nel sud delle Filippine, nelle ultime settimane, è accaduta la stessa cosa con il diffondersi dell’epidemia causata dal nuovo coronavirus. Lì i fondamentalisti di Daesh (e i gruppi affiliati a esso) hanno confermato il loro primato: penetrare nel tessuto sociale dei territori a maggioranza musulmana per fare proselitismo e, soprattutto, per reclutare nuovi militanti, fiaccati dalla povertà e dall’isolamento

Marawi, la roccaforte dell’Is

Succede nella città di Marawi, unico baluardo islamico nel Paese, dove i reclutatori di Daesh, nelle ultime settimane, hanno sfruttato la situazione di profondo disagio causata dal Covid-19 per estendere la loro influenza. Come riportato da Internazionale, che cita un articolo di Asia Times, secondo i funzionari delle forze di sicurezza filippine, i reclutatori dello Stato islamico avrebbero setacciato la zona per coltivare ed educare una nuova generazione di affiliati.

Il “pretesto” della quarantena

Il presidente del think tank Istituto filippino per la ricerca sulla pace, la violenza e il terrorismo, Rommel Banlaoi, ritiene che le attività di Daesh nella zona non solo siano andate avanti nel tempo, ma che durante la pandemia si siano addirittura intensificate. Come ricostruito dal quotidiano asiatico, secondo l’esperto, la rete jihadista avrebbe approfittato delle misure di sicurezza imposte dal lockdown, utilizzandole “come pretesto per mobilitare e reclutare nuovi miliziani”, diffondendo l’idea dell’estremismo radicale e violento, in particolare nelle aree rurale più povere, colpite maggiormente dal confinamento.

L’assedio di Daesh nel 2017

In base a quanto riportano autorità, esperti e studiosi, i gruppi terroristici presenti in quell’area, avrebbero consolidato un potere già forte, dovuto all’occupazione di Marawi del maggio 2017. L’invasione delle forze appartenenti allo Stato islamico era stata l’inizio di un vero e proprio assedio, durato cinque mesi, le cui conseguenze sono ancora evidenti e visibili in tutta la zona. Marawi era stata occupata da un gruppo di miliziani armati, i quali, una volta varcato simbolicamente l’ingresso della città avevano sventolato la bandiera del califfato. Che lì è rimasta a lungo, come una specie di “monito”. Il loro obiettivo, in quel momento, era di fondare una wilayah, ovvero una provincia autonoma dell’autoproclamato Stato islamico nel Sudest asiatico (da qualche anno terreno molto fertile per la diffusione dei messaggi fondamentalisti). L’occupazione del 23 maggio 2017, provocò la morte di 1.100 persone e costrinse alla fuga più di 350mila civili di cui, in base ai numeri diffusi dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, 127.865 sarebbero ancora sfollati.

La campagna militare e la distruzione della città

Essendo Marawi l’unica città a maggioranza musulmana del Paese, dopo l’occupazione di Daesh, il presidente filippino, Rodrigo Duterte, nel 2017 avviò un’imponente campagna militare per riportare l’ordine in quella zona. L’operazione che ne seguì fu importante e massiccia, perché i bombardamenti, ufficialmente pensati per soltanto distruggere le postazioni dei miliziani di Daesh e i loro quartier generali, in realtà, distrussero anche gran parte della città, che ancora oggi è ridotta a un cumulo di macerie. Come riportato dal quotidiano asiatico, nel Paese è stato stimato che i costi per la ricostruzione di Marawi ammontino a circa 72,2 miliardi di pesos (cioè 1,39 miliardi di dollari).

Lotta al virus e a Daesh

Nonostante l’intervento militare, dopo tre anni, le forze di sicurezza filippine non sono riuscite a disinnescare la pericolosa bomba jihadista. Dal febbraio scorso, infatti, le forze armate di stanza a Mindanao, la grande isola meridionale delle Filippine dove l’estremismo islamico gioca un ruolo determinante, combattono i gruppi armati fondamentalisti (tutti affiliati all’autoproclamato Stato islamico) e i ribelli comunisti. Ad aprile, mentre anche in tutto il Paese erano attive le misure di contenimento della nuova pandemia, 11 soldati dell’esercito sono stati uccisi nella cittadina di Patikul, nella provincia insulare di Sulu, dove la presenza di Daesh si fa sentire, durante uno scontro (durato diverse ore) con il gruppo Abu Sayyaf, la cellula armata nata nel 1991 e classificata come organizzazione terroristica straniera dagli Stati Uniti. A maggio, invece, i Combattenti per la libertà del Bangsamoro islamico, un altro gruppo affiliato all’Is, attivo nella provincia di Maguindanao, in un assalto preparato a Datu Hoffer, hanno ucciso altri due soldati impegnati nelle operazioni di controllo per il rispetto del lockdown.

Duterte contro i fondamentalisti

Il generale Cirilito Sobejana, a capo del Comando occidentale dell’esercito filippino a Mindanao, ha sottolineato come le operazioni militari contro i gruppi ispirati (o affiliati) allo Stato islamico proseguiranno, sulla base dell’ordine permanente del presidente Duterte (primo presidente filippino a provenire da Mindanao) di eliminare soprattutto il gruppo Abu Sayyaf: durante il suo esecutivo, la milizia Abu Sayyaf ha costituito un serio problema di sicurezza sociale, in particolare per i metodi di scontro (guerriglia tra le parti) e, soprattutto, i continui attacchi contro i civili, cioè devastanti attentati esplosivi suicidi, studiati per colpire le autorità.

Gli attentati

E gli attentati, nelle Filippine, infatti, si sono intensificati a causa della presenza dei miliziani dello Stato islamico. Il 31 luglio 2018, un attacco contro un posto di blocco a Lamitan, nella provincia di Basilan, provocò la morte di dieci persone. In quel caso, il principale sospettato fu un cittadino tedesco di origini marocchine, che poteva aver raggiunto il Paese come jihadista. Il 27 gennaio 2019, invece, una coppia indonesiana, con una doppia esplosione in una chiesa cattolica nella provincia di Jolo, aveva ucciso 20 persone e ne aveva ferite un centinaio. Secondo gli esperti, il susseguirsi di questi colpi, rappresenterebbero un segnale inequivocabile della continua attività dei foreign fighters di Daesh, i quali, provenienti da tutto il mondo, impongono la loro presenza nelle Filippine.

I combattenti stranieri a Mindanao

Come riportato dal quotidiano e da alcune fonti di intelligence, alla fine dell’anno scorso, si contavano almeno 59 combattenti stranieri entrati illegalmente nelle Filippine e accolti dai gruppi affiliati allo Stato islamico proprio nella provincia incandescente di Mindanao. Per diversi foreign fighters, le Filippine oggi sarebbero una vera e propria “nuova terra del jihad”, in particolare dopo le sconfitte e le perdite subite in Medio Oriente. Secondo gli esperti filippini, la maggior parte dei miliziani arriverebbe da Indonesia, Malesia, Egitto e Arabia Saudita. Arrivano sia per gli attentati, sia per questioni pratiche, come il trasferimento di finanziamenti e armi ai militanti locali. E siccome il Covid-19 e il conseguente lockdown hanno ridotto (e di molto) questi spostamenti, i foreign fighters, adesso, appoggiano e sfruttano i partner locali. Perfettamente istruiti dalla propaganda degli ultimi tre anni.





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