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Terrorismo /

Cinquecentosessanta “moschee-modello”  per contrastare l’estremismo ed educare al “vero islam”. È questo il piano previsto dalla premier bengalese,  Sheikh Asina. I nuovi luoghi di culto andranno ad aggiungersi alle circa 3mila moschee già presenti nel Paese.  Il progetto sarà finanziato quasi interamente da fondi sauditi. Gli accordi erano stati siglati già un anno fa, ma soltanto ieri è stato ufficializzata la costruzione delle prime nove moschee “made in Riyadh”.

“Vogliamo che la gente impari i veri insegnamenti islamici” ha detto Asina concludendo la conferenza stampa in cui presentava il piano di costruzione. “Vogliamo che l’immagine della nostra religione sacra venga risollevata. L’islam è una religione di pace. Vogliamo che prevalga la pace”.

Affermazioni innocue dunque, ma che stonano se rapportate alla situazione estremamente complicata che il Bangladesh sta vivendo. Ondate di profughi Rohingya continuano ad arrivare dalla vicina Birmania; la povertà endemica e strutturale del Bangladesh getta moltissimi disperati tra le braccia mortifere dei movimenti islamisti più violenti e radicali; scandali legati alla corruzione hanno drasticamente ridotto gli indici di gradimento del governo e all’orizzonte si profilano delle elezioni dal risultato mai così incerto.

È indubbio che la decisione di costruire un così consistente numero di nuove moschee sia legata più ad un mero calcolo politico che ad un improvviso fervore religioso. Diversi analisti sostengono che la scelta di Asina mirerebbe a portare dalla propria parte la maggioranza delle organizzazioni religiose islamiche del Paese in vista delle elezioni. L’inscindibilità tra fede e politica è senz’altro una specificità del mondo islamico. Avere dalla propria parte la maggioranza dei mullah e delle organizzazioni religiose istituzionali significa, almeno in linea teorica, conquistare i cuori degli elettori.  Agli ulema verranno affidati incarichi (e presumibilmente stipendi) importanti nella speranza che riescano coi loro sermoni a convincere i fedeli a votare per la leader della Lega Popolare Bengalese. Il tutto andrà a discapito del principale partito di opposizione, il Jamaat-e-Islami. Si tratta di un movimento ideologicamente vicino alla Fratellanza Musulmana, non esattamente il miglior amico di casa Saud.  

Nel frattempo la Polizia bengalese ha reso pubblico un documento riguardante la proliferazione di organizzazioni islamiste nel Paese. Le indagini sono iniziate due anni fa, all’indomani del sanguinoso attacco al ristorante di Dakha in cui perirono venti persone compresi 9 nostri connazionali. Nel corso di questi due anni sono stati rintracciati più di quattromila militanti, settanta sono stati uccisi nel corso di svariati conflitti a fuoco. Molti di essi sono stati arrestati, ma 216 sono riuscite a darsi alla fuga. Il timore è che, sentendosi braccati, possano reagire in maniera violenta e imprevedibile.

Nel rapporto si legge anche che il 90% dei giovani che si uniscono ai gruppi terroristici si radicalizza sul web. Sono centinaia le pagine online chiuse e subito riaperte nell’etere bengalese. Alcuni di questi siti sono facilmente consultabili; tra questi c’è il blog “Allahorpatheahoban” (chiamata alla via di Allah) in cui si inneggia al martirio e si fanno apprezzamenti su Osama Bin Laden. In altri siti sono addirittura reperibili dei manuali di addestramento per il “perfetto terrorista”. La polizia tenta di fare il possibile ma si susseguono casi i casi di omicidi a sfondo religioso contro accademici o giornalisti che tentano di criticare l’Islam violento e settario.

Ma c’è dell’altro. Dietro agli accordi con i sauditi non c’è soltanto lo sforzo per arginare il fenomeno dell’islamismo radicale. È evidente che il tentativo di Bin Salman è quello di accaparrarsi anche ideologicamente i paesi bagnati dall’Oceano Indiano. Bangladesh, Filippine, Myanmar, Sri Lanka, Thailandia, Malesia, Indonesia. In ognuno di questi paesi negli ultimi anni si sono moltiplicate donazioni provenienti da Riyadh con l’obiettivo non dichiarato di propagandare il wahhabismo anche in nazioni storicamente estranee all’ideologia sunnita. A farne le spese sono, come sempre, le minoranze religiose: non solo cristiane, induiste o buddiste, ma anche sufi e sciite.

È questo il prezzo da pagare alla finanza islamica: aiuti economici e militari in cambio di un sempre maggiore laissez-faire in campo religioso e dottrinale.

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