Sabato da Herat sono spuntati alcuni video macabri, capaci di mandare indietro gli orologi di due decadi. Un uomo, in particolare, è stato ritratto senza vita e impiccato a una gru nella piazza principale della città. Tutto attorno una folla di curiosi che scattavano foto con i propri cellulari. Per i talebani il corpo era di un criminale che, assieme ad altri tre complici, avrebbe tentato di rapire due uomini. La polizia talebana sarebbe quindi intervenuta, nel conflitto a fuoco che ne è nato i quattro membri della banda sarebbero stati uccisi. Uno di loro, per l’appunto, è stato portato in piazza. Un modo per gli studenti coranici di intimorire gli abitanti e scoraggiare altri presunti criminali. Un po’ come quando durante gli anni del loro primo emirato, dal 1996 al 2001, lapidavano donne adultere negli stadi o tagliavano le mani ai ladri davanti la folla. Al momento non si è arrivati alle mutilazioni in pubblico, ma l’impressione è che da qui in avanti la situazione può andare solo a peggiorare.
“I talebani sempre più pericolosi”
A confermare questa impressione è una fonte che collaborava con gli occidentali presente ad Herat. Raggiunto da InsideOver, l’uomo, che per ovvi motivi ha voluto mantenere l’anonimato, ha raccontato cosa sta vedendo in queste ultime settimane. L’episodio di sabato non è stato il primo del genere: “Qualche giorno prima ho visto con i miei occhi una donna presa a frustate da alcuni miliziani talebani soltanto perché era vestita all’occidentale. Dopo le hanno pure sparato a una gamba e l’hanno portata via sulla loro jeep”. Gli studenti coranici si sono premurati anche in quel caso di mostrare il loro comportamento alla folla. Il fatto è avvenuto in una via molto trafficata, la scena è stata vista da decine di cittadini: “Purtroppo non potevo filmare – ha proseguito l’uomo – sarebbe stato troppo pericoloso. Ma avremmo avuto un’altra prova di come si stanno comportando i talebani”.
Sono in tanti coloro che vorrebbero immortalare questi episodi, ma uscire dalla tasca un telefonino potrebbe costare caro. E così è il passaparola l’elemento che hanno i cittadini di Herat per riportare cosa sta accadendo in città: “Venerdì sera – ha raccontato la nostra fonte – molti hanno visto una donna picchiata soltanto perché girava da sola. Lei era appena uscita da un hotel dove si festeggiava un matrimonio e non era accompagnata. E questo per i talebani è contro la legge”. Il nostro testimone nei toni usati durante la conversazione è perentorio: “Noi non abbiamo più alcuna libertà. É diventato tutto pericoloso soprattutto per le donne, ma anche per tutti coloro che non appoggiano i talebani”. Di recente gli islamisti hanno nominato il mullah Nooruddin Turabi quale direttore del sistema carcerario. C’è la sua firma dietro le esecuzioni in pubblico praticate tra il 1996 e il 2001. Intervistato su diversi network internazionali, Turabi ha rassicurato circa l’intenzione di non praticare più le uccisioni davanti le folle, ma da Herat stanno emergendo segnali poco incoraggianti.
Talebani che non riescono a controllare altri talebani
Un altro aspetto inquietante degli ultimi giorni riguarda la ricerca del personale che ha lavorato con gli occidentali. Molti islamisti li stanno cercando casa per casa: “Controllano sui social – ha dichiarato la nostra fonte – vedono se ci sono foto con militari afghani oppure della Nato, chiedono in giro informazioni sui parenti”. Eppure i talebani avevano promesso l’amnistia. Subito dopo l’arrivo a Kabul dello scorso 15 agosto, i portavoce del movimento hanno tranquillizzato tutti e hanno parlato di perdono. Anche in questo caso la promessa non sempre è stata mantenuta: “So di ragazzi scomparsi, spariti nel nulla”, ha evidenziato l’ex collaboratore. Lui stesso ha dovuto lasciare casa e adesso vive in un paese fuori Herat. In città oramai si reca soltanto per fare la spesa ma, ha specificato, cambiando spesso vestiti ed evitando di fare gli stessi tragitti: “Non si può sapere mai”, ha spiegato.
Sul perché della mancata amnistia, la fonte non ha alcun dubbio: “A Kabul hanno parlato di perdono, ma il vero problema è che i talebani sono formati da tanti gruppi”. Dunque è impossibile controllare dal centro ciò che fanno i miliziani in periferia. E così possono esserci estremisti oppure singole fazioni che non ascoltano o nemmeno conoscono i dettami dei leader: “Inoltre – ha aggiunto il collaboratore – non ci sono solo afghani tra i talebani. Alcuni vengono anche dal Pakistan, nei giorni scorsi ho sentito due di loro parlare invece in arabo”. A Herat di certo sono pochi i membri locali del movimento. Nella stragrande maggioranza dei casi i miliziani sono arrivati da sud, parlano il pastho, la lingua dei pasthun, in pochi invece conoscono il dari, l’idioma parlato dai tagiki che rappresentano la maggioranza di questa provincia. Una difficoltà comunicativa ben rappresentativa di un contesto fatto di incomprensioni e di terrore.
“Ho paura per la mia incolumità”
L’uomo che abbiamo sentito non ha mai tradito alcuna emozione. Ha spiegato in che modo è entrato in contatto con il contingente italiano, i progetti portati avanti assieme ai militari, il suo ingresso poi nell’esercito locale e il suo rapporto mai terminato con i mentori italiani. Sembra essere orgoglioso di quanto fatto, viene fuori un velo di malinconia per quanto sta accadendo adesso. Ma tutto è raccontato in modo nitido, senza far trasparire nei toni le sue sensazioni. Anche quando parla della paura, elemento che inevitabilmente per adesso sta attanagliando lui e tutti i suoi ex colleghi: “Temo ogni giorno – ha dichiarato con estrema franchezza e altrettanta lucidità – i talebani sono venuti già due volte nella casa che ho abbandonato. Qui non ho futuro, qui io potrei morire”. Il suo obiettivo è avere quanto prima un visto per lasciare il suo Paese. Potrebbe passare dall’Iran, il cui confine non è molto lontano, ma l’Italia è la vera priorità. I saluti sono arrivati alcune ore dopo l’ultima risposta. Era saltata la corrente ad Herat e per diverso tempo non c’è stata più linea. Altro piccolo segnale delle condizioni dell’Afghanistan di oggi.