Che cosa intendiamo per “smoking gun”? Ovvero: quale “pistola fumante” ci aspettavamo dalle 28 pagine del Rapporto del Congresso Usa sugli attentati dell’11 settembre, che sono state rese note ieri dopo 14 anni di polemica attesa? Chi si aspettava di trovarci una frase tipo “è stato il re dell’Arabia Saudita e dirci di abbattere le Torri Gemelle” sarà rimasto deluso. Chi ha cercato di approfondire le vicende del terrorismo islamico sponsorizzato dai petrodollari, al contrario, ha trovato una serie di consistenti conferme.Per approfondire: 11 settembre, i sauditi e i dirottatoriUn’ottima analisi dei contenuti delle 28 famose pagine è già apparsa su ilGiornale.it, inutile ripetere. In estrema sintesi e per orientarci: alcuni dei terroristi (15 dei quali, su 19, erano sauditi ) che dirottarono gli aerei dell’11 settembre ebbero contatti ripetuti e frequenti (per ottenere documenti, sistemazioni, informazioni, conti bancari) con personaggi legati ad aziende, a rappresentanze diplomatiche e a istituzioni religiose saudite negli Usa. Su alcuni di questi “personaggi” le 28 pagine lasciano un margine di dubbio: forse sapevano, forse no, impossibile stabilirlo. Su altri no.Inutile notare che in altri casi è servito molto meno al Governo americano per trarre deduzioni opposte. Il principio del “non poteva non sapere” viene volentieri applicato al nemico Putin (Panama Papers, omicidio Nemtsov, omicidio Politkovskaja, doping degli atleti, omicidio Litvinov, per fare qualche esempio a memoria) ma assai meno volentieri al principe saudita Bandar bin Sultan, dal 1983 al 2005 ambasciatore saudita a Washington, poi segretario del Consiglio di Sicurezza Nazionale dell’Arabia Saudita e dal 2012 al 2014 capo dei servizi di intelligence del regno. Oltre che, naturalmente, grande amico della famiglia Bush. Così va il mondo, non è una sorpresa.Più utile notare che tutti questi maneggi tra i terroristi dell’11 settembre (due in particolare: Khalid al-Midhar e Nawaf al-Hazmi) e il giro di uomini d’affari sauditi, imam sauditi e diplomatici sauditi si svolge in luoghi che di intrighi islamisti avevano grande esperienza. Siamo nel Sud della California, tra la città del cinema Culver City e quella della marina San Diego. Qui, un po’ di anni prima, era di casa Abd Allah Yussuf al-Azzam, il mentore di Osama Bin Laden, il vero inventore del jihad globale. Negli anni Ottanta Al-Azzam (palestinese di nascita, già docente all’università King Abdulaziz di Gedda, in Arabia Saudita, dopo essere stato espulso dalla Giordania per le sue idee troppo radicali) visitò oltre cinquanta città degli Usa per raccogliere fondi e propagandare il jihad contro i sovietici. Nel 1989, quando i sovietici sconfitti si ritirarono dall’Afghanistan, Al-Azzam fu fatto opportunamente saltare in aria con due dei suoi figli. Ma la sua rete americana aveva i punti forti appunto in California, soprattutto a San Diego, oltre che a Tucson (Arizona) e Brooklyn (New York), sedi di importanti centri islamici.Ho provato a raccontare un po’ di queste cose nel mio libro Il patto con il diavolo (Rizzoli). Qualcuno potrebbe chiedersi che cosa c’entrano gli anni Ottanta con questi nostri anni, e che rapporto c’è tra la guerra contro i sovietici e gli attentati in America. La risposta è: tutti gli studi più seri sul finanziamento del terrorismo islamico dicono la stessa cosa. E cioè, che da allora a oggi il meccanismo è rimasto lo stesso. Dopo che Al-Azzam fu tolto di mezzo, fu Osama bin Laden a rilevare i suoi contatti americani, esattamente negli stessi posti. E venne l’11 settembre.Per approfondire: La storia non detta dell’11 settembreCi sono le somme enormi spese dai Governi dei Paesi del Golfo Persico per promuovere la causa del wahabismo nel mondo. E ci sono le somme, altrettanto cospicue, che arrivano a estremisti e terroristi attraverso la rete di fondazioni caritative, moschee e ricchi individui attive in tutto il Medio Oriente e altrove nel mondo. Ed è la stessa catena di trasmissione che finanziò la lotta contro i sovietici, poi gli attentati di Osama e oggi le guerre dell’Isis, a entrare sempre in azione.Due dei più autorevoli think tank americani, hanno pubblicato interessanti studi in proposito. Il primo, intitolato Terrorist financing, è stato pubblicato dal Council on Foreign Relations e spiega che “per anni singole persone e charities con sede in Arabia Saudita sono state la più importante fonte di finanziamento di … E per anni le autorità dell’Arabia Saudita hanno fatto finta di non vedere”. Il secondo, intitolato Playing with fire e pubblicato dalla Brookings Institution, dice che “fin dai primi giorni delle proteste in Siria i donatori basati in Kuwait… hanno lavorato per convincere i siriani a prendere le armi… Oggi abbiamo le prove del fatto che i donatori basati in Kuwait hanno sostenuto gruppi ribelli che hanno commesso atrocità…”. Il brutto di questa cosa sta appunto nel fatto che il primo rapporto è del 2002 e si riferisce ad Al Qaeda mentre il secondo è del 2013 e annuncia l’Isis. Nulla è cambiato, il sistema è lo stesso.Per cui, in quelle 28 pagine c’è molto più di una pistola fumante, c’è il sistema che gira a tutto vapore e su cui nessuno vuole intervenire. Nemmeno il premio Nobel per la Pace Obama: il Presidente ha spesso ribadito la propria volontà di mettere il veto al Justice Against Sponsor of Terrorism Act, la legge che permetterebbe alle famiglie delle vittime dell’11 settembre di far causa a Governi stranieri che fossero responsabili di atti di terrorismo, se questa fosse mai approvata dal Congresso.
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