Da “baby jihadisiti” a “baby spie”. Alcuni sono ancora dei bambini, altri appena ragazzi, ex combattenti nelle file di al Shabaab “reciclati” per pochi dollari dall’intelligence somala come informatori.A denunciare questa verità nascosta è il Washington Post che, per la prima volta, ha dato voce ad alcune delle “baby spie”. Secondo i dati raccolti dal quotidiano statunitense, sarebbero centinaia i minori passati coattivamente alle file della National Intelligence e Security Agency (Nisa). Coinvolti in missioni ad altro rischio, mandati a viso scoperto nei quartieri più pericolosi della città a caccia di informazioni, minacciati: il quadro che emerge è agghiacciante.Abdullah, per esempio, è uno di loro. Entra a far parte di al Shabaab all’età di soli tredici anni. Nella piccola città del sud della Somalia dove è nato non è il solo. Quasi tutti i suoi compagni di classe lo seguono in cambio della protezione dai clan rivali e poco denaro.Dopo circa due anni di militanza islamica, il giovane Abdullah comincia a sognare una vita diversa e il desiderio di disertare diventa ogni giorno più insistente. Grazie all’aiuto di uno zio viene prelevato dagli agenti dei servizi segreti e trasferito nella capitale. Abdullah si sente sollevato. Ancora non ha scoperto cosa si nasconde dietro quell’apparente lieto fine.Ben presto inizia un nuovo incubo. Dopo esser stato sottoposto ad un lungo interrogatorio non viene destinato ad un centro di riabilitazione, bensì, rimane sotto la custodia delle forze di sicurezza per due anni. Comincia così una nuova prigionia, da terrorista ad informatore. “Gli agenti mi costringevano ad attraversare alcune zone della città e ad indicargli quelli che avevano combattuto con me”, ha raccontato. Per ogni persona segnalata con il dito, il giovane confidente guadagnava due dollari.Le storie dei ragazzi intervistati si somigliano tutte. “Gli agenti mi portavano in giro, a piedi o in macchina, intimandomi di indicargli chi fosse appartenente ad al Shabaab, avevo paura perché tutti potevano riconoscermi”, ha rivelato un altro membro del gruppo di otto testimoni chiave raggiunti e intervistati dagli inviati del Washington Post.Il nome in codice della task force di “baby spie” costrette a puntare il dito contro parenti ed amici rimasti al servizio di al Shabaab è “far-muuq”, ovvero, “coloro che indicano”.Abdirahman Turyare, capo dei servizi segreti somali, è intervenuto negando solo in parte il coinvolgimento dell’Agenzia in questo scandalo. Secondo Turyare, infatti, gli ex bambini soldato, trattenuti dalla Nisa in ragione della loro pericolosità, si sarebbero offerti di aiutare gli 007 volontariamente e non, come è stato denunciato, dietro costrizione o per denaro.La versione ufficiale della Nisa, che non trova rispondenza in quella unanime fornita dai testimoni, allevia di poco la posizione dell’Agenzia e del governo somalo. Nel 2015 la Somalia ha ratificato la “Convenzione U.N. sui diritti del fanciullo”, che vieta espressamente il reclutamento di bambini di età inferiore ai quindici anni da parte delle forze di sicurezza. Inoltre, secondo un accordo siglato l’anno precedente, gli ex soldati minorenni entro settantadue ore dalla loro liberazione dovrebbero esser affidati all’UNICEF e non posti sotto la custodia dell’intelligence locale per anni.Gli echi di queste rivelazioni sono arrivati fino alla Casa Bianca, mettendo in imbarazzato anche l’amministrazione americana che addestra e finanzia i reparti di intelligence locali. Laetitia Bader, osservatore in Somalia per Human Rights Watch, è tornata sul punto criticando la decisione dell’amministrazione Obama di continuare a fornire aiuti militari perché “trasmette esattamente il messaggio sbagliato, non solo all’esercito somalo, ma a tutte le forze di sicurezza del paese che si sentono legittimate ad utilizzare i bambini senza andare incontro ad alcuna conseguenza”. Nel 2008, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il Child Soldier Prevention Act proprio allo scopo di bloccare l’assistenza militare ai paesi che “reclutano e utilizzano bambini soldato”, eppure, anche quest’anno, gli Stati Uniti hanno stanziato 330 milioni di dollari alla Somalia di cui la gran è andata proprio al settore della sicurezza.Abdullah e gli altri ragazzi adesso sono in salvo. Anche se il fenomeno del reclutamento di minori ex combattenti come collaboratori di intelligence è ancora tristemente attuale, alla fine del 2015, tutti i testimoni intervistati dal The Post, dopo anni di pressioni da parte delle Nazioni Unite, hanno potuto finalmente iniziare il percorso di riabilitazione che gli era stato negato. Adesso si trovano all’Elam Peace and Human Right Center di Mogadiscio dove a prendersi cura di loro ci pensano psicologi e esperti della cooperazione. Purtroppo però, come spiegano dal centro, questi ragazzi sono accompagnati da un’amara consapevolezza. “Una volta etichettato come informatore, non c’è più niente da fare. Dove potrò mai andare?”, si domanda un diciassettenne ospite della struttura che ha lavorato come informatore sin dall’età di quattordici anni.





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