Ancora una volta è Jenin l’epicentro degli scontri tra palestinesi e israeliani. Le ultime operazioni condotte dalle forze speciali dello Stato ebraico si sono svolte all’interno di questa città. O, per meglio dire, all’interno del campo profughi. Qui ha infatti sede uno dei campi per rifugiati palestinesi più grandi dell’intero Medio Oriente. Istituito nel 1953 dal governo giordano, l’area rappresenta una vera e propria “città nella città”. Quasi una zona franca, storicamente una roccaforte dei gruppi armati palestinesi. Non è quindi un caso che Israele stia colpendo Jenin. Gli scontri di questi giorni affondano le proprie radici nel 2022, anno in cui, mese dopo mese, ha cominciato a crescere la tensione. Il timore ora è quello di assistere a nuove e gravi escalation.

Gli ultimi episodi che hanno coinvolto il campo profughi di Jenin

L’8 aprile del 2022 a Tel Aviv si torna a sparare in pieno centro. Un uomo apre il fuoco contro i passanti, uccidendone due e ferendone altri 15. L’autore del gesto viene poi catturato e ucciso dalle forze israeliane. Poco dopo viene ricostruita la sua identità. Si tratta di Raed Fathi Hazem, 29 anni. Il suo luogo di residenza è il campo profughi di Jenin. Un segnale, secondo le autorità, del fatto che da lì erano tornati a uscire potenziali terroristi. Non solo aspiranti suicidi isolati e senza un gruppo alle spalle, ma anche vere e proprie cellule agganciate alle storiche fazioni di combattenti palestinesi. Un mese dopo a Jenin è battaglia: l’11 maggio infatti, le forze speciali israeliane fanno irruzione nel campo profughi e lo scontro è molto violento. A farne le spese, tra gli altri, è anche una giornalista di origine palestinese: si chiamava Shireen Abu Akleh ed era inviata di Al Jazeera.

Il governo, allora retto dal premier Naftali Bennett, aveva come obiettivo quello di snidare le reti terroristiche ramificate nel campo profughi di Jenin. L’intento però si rivela tutt’altro che agevole. Anche perché a prendere le redini nel campo non sono gruppi riconducibili direttamente ad Hamas o ad Al Fatah, le due principali fazioni palestinesi. Al contrario, si assiste a una rapida ascesa della Jihad Islamica. Circostanza ben chiara a inizio anno all’intelligence israeliana. E infatti, con in sella stavolta il premier Netanyahu, nel gennaio del 2023 l’esercito lancia una nuova operazione con nel mirino almeno tre leader locali della Jihad. Il bilancio è tragico: dieci i morti tra i palestinesi, tra cui una donna. La vendetta non si fa attendere: il giorno dopo, un ragazzo palestinese di 21 anni apre il fuoco nel quartiere di Neve Jakov, a Gerusalemme Est. A morire sotto i suoi colpi sono otto civili israeliani.

Nei mesi successivi la tensione non si allenta. Vengono registrate altre schermaglie tra palestinesi e israeliani e il 26 giugno si verifica un episodio fino a quel momento inedito: un razzo viene lanciato verso il nord di Israele proprio da Jenin. Mai dei missili erano entrati nello spazio aereo israeliano dalla Cisgiordania. Forse è proprio questo fatto a indurre Netanyahu a un altro blitz, quello che la mattina del 4 luglio porta a una nuova battaglia urbana nel cuore del campo profughi, comportando la morte di 12 palestinesi e un militare israeliano.

Il precedente del 2002

Fino al periodo del mandato britannico in Palestina, Jenin era un piccolo villaggio della Samaria a pochi chilometri da Afula e Nablus. Al suo interno abitavano poco più di tremila anime. Oggi la città conta quasi 40mila abitanti e in 10mila vivono nel campo profughi. L’evoluzione demografica è probabilmente figlia della guerra del 1948: occupata brevemente dalle forze dello Stato ebraico, il suo territorio è stato poi ripreso da iracheni e giordani e inglobato nella Cisgiordania. Molti cittadini arabi delle regioni circostanti, hanno quindi trovato rifugio Jenin. Da qui la scelta del governo giordano, il quale ha controllato la città e l’intera Cisgiordania fino alla guerra dei sei giorni del 1967, di istituire il famigerato campo profughi.

Un luogo contrassegnato da tende e baracche, poi via via sono spuntate le prime abitazioni. Ma sempre in un contesto di precarietà tipico di ogni campo di sfollati. Le vie polverose e strette hanno fatto da terreno fertile all’avanzata dei gruppi più radicali. Situazione emersa già sul finire degli anni ’80, ai tempi della prima intifada. Con lo scoppio della seconda intifada ,nei primi anni 2000, la pericolosità del campo profughi di Jenin è risultata ancora più evidente per le forze israeliane. Da qui sarebbero partiti almeno 28 attentatori kamikaze, le cui azioni hanno ucciso più di 120 cittadini israeliani tra il 2001 e il 2002.

Per questo l’allora premier Ariel Sharon ha deciso di usare il pugno duro. L’esercito, nell’aprile del 2002, ha occupato la città e ha posto in stato di assedio il campo. Ha avuto così inizio la più cruenta battaglia della seconda intifada, costata ufficialmente la vita a 53 palestinesi e 23 militari israeliani. Si è combattuto strada per strada e casa per casa per diverse settimane. Oggi lo scenario rischia drammaticamente di ripetersi.

Cosa sta cambiando tra i gruppi palestinesi

Il contesto attuale è però molto diverso da quello di 21 anni fa. All’epoca il campo profughi di Jenin è stato un serbatoio di terroristi ben organizzati ed armati direttamente dalle fazioni palestinesi. Hamas in primis. A dimostrarlo anche il fatto che, a intifada finita, Jenin è stata la prima città della Cisgiordania a far registrare un aumento di consensi elettorali per Hamas a scapito di Al Fatah. Adesso invece all’interno del campo nessuna delle storiche formazioni palestinesi sembra fare più breccia, entrambe vengono viste dai più radicali come movimenti lontani dalla propria realtà.

Chi vuole imbracciare le armi si rivolge alla Jihad Islamica. Oppure si organizza in modo autonomo. Ed è quest’ultima circostanza che sta allarmando molto Israele. Nel campo profughi sono nate diverse formazioni locali, tra cui ad esempio la Brigata Jenin. La lotta armata non viene più quindi trainata dalle storiche fazioni palestinesi, ma da gruppi autonomi che, come tali, sono meno controllabili e meno gestibili. Tanto dagli israeliani quanto dagli stessi palestinesi.

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