Il 9 aprile scorso le forze armate siriane sono finite sotto attacco nei pressi del sito archeologico di Palmyra, in pieno deserto siriano. Diciotto giorni dopo, a Kirkuk, in Iraq, l’ufficio per il controterrorismo e l’intelligence è stato assaltato da un gruppo armato. Il bilancio delle due operazioni è stato di quasi venti morti tra soldati e forze di sicurezza. L’aspetto inquietante è che entrambi gli agguati portavano la stessa firma, quella dello Stato islamico.

Poco più di un anno fa, verso la fine di marzo, il mondo salutava la caduta di Baghuz, in Siria, come l’ultimo capitolo di una lunga ed estenuante guerra contro l’Isis. Addirittura sette mesi dopo, il 27 ottobre, arrivava la conferma della morte del califfo, e leader del gruppo, Abu Bakr al-Baghdadi colpito da un raid americano nel villaggio di Barisha sempre in terra siriana.

Oggi però quei successi e quelle vittorie sembrano superati dai numeri. I dati dell’Acled (Armed Conflict Location & Event Data Project) non lasciano spazio a dubbi: nel 2020 i combattenti delle Bandiere nere sono tornati a colpire. In primavera, quasi in stile talebano, hanno lanciato una serie di piccole offensive tra Siria e Iraq. Segni preoccupati di un gruppo terroristico che sta rialzando la testa ancora una volta.

Dai mesi difficili alla risalita

Per capire come oggi l’Isis sia tornato ad essere un pericolo bisogna riavvolgere il nastro e raccontare cos’è successo nell’ultimo anno dopo che è stato liberato l’ultimo fazzoletto di terra in mano agli islamisti. A partire da marzo 2019 il gruppo ha mostrato forti segni di debolezza, fiaccato da tre anni di raid americani e internazionali e dalla progressiva perdita dei suoi centri di potere, in Siria come in Iraq. Il punto più basso è stato toccato in ottobre, come abbiamo visto, con la morte del leader carismatico e del portavoce del gruppo Abu al-Hassan al-Muhajir. In quelle settimane si temeva un aumento degli attacchi come vendetta per la morte del califfo, ma l’Isis è stata incapace di condurre una rappresaglia su vasta scala.

Cos’è cambiato quindi dopo ottobre? Le ragioni dietro a questo ritorno sono molteplici e sono diverse in Iraq e Siria, anche se per entrambi valgono almeno due aspetti: l’endemica debolezza dello Stato centrale e la riduzione della pressione militare su quello che rimaneva di Daesh. Nel 2020 il gruppo ha dimostrato non solo di aver ritrovato smalto con operazioni “hit and run”, ma di essere a buon punto con la sua riorganizzazione interna. L’attacco a Palmyra, in particolare, ha indicato che i miliziani hanno accesso a informazioni chiave, come il movimento di truppe o la presenza di target sensibili. Questo è possibile solo grazie a un radicamento territoriale e a infrastrutture di collegamento tra le cellule.

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Persino la morte di al Baghdadi sarebbe stata archiviata velocemente. Non solo con la nomina di Amir Mohammed Abdul Rahman al Mawli come suo successore, ma anche con una struttura che stava già superando la dipendenza dal leader. In un rapporto del Pentagono pubblicato nel febbraio scorso si legge che secondo la Dia e lo United States Central Command la morte di Baghdadi non avrebbe comportato alcuna diminuzione delle capacità di azione del gruppo. Un segno che le reti territoriali continuano funzionare.

Il terrore tra le sabbie siriane

La pericolosità dei miliziani soprattutto nella Siria Occidentale, lungo le rive dell’Eufrate che portano al confine con l’Iraq, era già chiara nell’aprile di un anno fa quando una serie di attacchi causarono la morte di decine di militari siriani. In quello stesso periodo si tenne una riunione allargata per cercare di porre un freno alla situazione. A quell’incontro, ha raccontato l’analista Charles Lister, erano presenti ufficiali siriani dell’intelligence, membri di esercito e aviazione, militari russi, esponenti delle forze iraniane Quds e degli Hezbollah libanesi. Nel corso del meeting si decise di spostare parte delle forze verso Nord, per contrastare le forze ribelli nella regione di Idlib e optare per il contenimento nei settori meridionali. Questo ha comportato una riduzione della pressione militare con la conseguenza che nei 12 mesi successivi non è mai stata lanciata una campagna massiccia per stanare i combattenti.

Ma il blocco di Damasco non è stato il solo a ridurre la pressione nell’area. Masrour Barzani, primo ministro del Kurdistan iracheno, ha spiegato all’Atlantic che le condizioni che nel 2014 hanno permesso l’avanzata delle bandiere nere sono ancora intatte, anzi si sono aggravate. È nel caos siriano che l’Isis ha prosperato. A rimescolare ancora le carte c’ha pensato la mossa di Donald Trump dello scorso ottobre quando ha annunciato il ritiro dei militari americani dalla Siria. La decisione, non ancora completa visto che ci sono ancora 500 militari nel Nord-Est del Paese, ha avuto un effetto domino soprattutto con la luce verde americana data alla Turchia per l’operazione “Sorgente di Pace” nel Nord della Siria. Le Syrian democratic force (SDF) a trazione curda hanno ripiegato verso nord per contenere l’offensiva di Ankara lasciando sguarniti i settori meridionali.

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Secondo i dati i nuovi attacchi dell’Isis, almeno uno ogni tre giorni, si concentrano nella Siria orientale, nei governatorati di Deir ez-Zor, Homs, Hasakah e nei pressi di Raqqa, colpendo in particolare lungo il corso dell’Eufrate. A Ovest del fiume i target principali sono le milizie sciite mentre nei settori più occidentali le forze armate siriane. A Est del fiume nel mirino ci sono invece i combattenti delle SDF.

Ad agire sono soprattutto cellule dormienti in una logica decentrata che deriva da una nuova struttura del gruppo. L’adattamento seguito alla battaglia di Baghouz ha portato i miliziani a selezionare gli obiettivi, rivedere la natura militare delle operazioni mostrandosi via via più rapidi nei movimenti con piccole unità che agiscono in un vasto territorio scarsamente popolato.

A destare particolare preoccupazione non sono però gli attacchi contro l’esercito siriano. Ma quello che succede a Est dell’Eufrate. Diversi centri controllati dall’SDF hanno registrato un aumento delle attività dell’Isis che minaccia i consigli locali chiedendo di tagliare i legami con le forze democratiche siriane, avvertimenti e minacce mai viste dalla caduta del califfato. Queste intimidazioni potrebbero indurre le popolazioni della zona a ridurre gli scambi con le forze anti-Isis di fatto creando un territorio instabile. Per accelerare questo processo pare siano stati creati dei reparti con il compito di influenzare la vita locale, come una sorta di polizia morale che vigila sull’applicazione della Sharia.

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Questa pressione nell’area rischia di trovare una valvola di sfogo a Raqqa. Nella sua ex roccaforte l’Isis ha lanciato una serie di operazioni mirate contro sedi e checkpoint SDF anche grazie a diverse cellule dormienti ancora attive. Come ha dimostrato l’arresto di Muhammad Rashid Thiyab, in passato capo del dipartimento della saluta del califfato, avvenuto il 13 aprile scorso.

La paura di un’offensiva contro le città in Iraq

Quasi nello stesso periodo in cui in Siria si riduceva la pressione nei confronti delle sacche jihadiste, anche in Iraq si è creata una tempesta perfetta con una serie di eventi a cascata. A ottobre le proteste popolari per le strade di Baghdad e altre città hanno aumentato l’instabilità politica con le dimissioni del governo, ma soprattutto costretto le autorità a spostare alcuni reparti di esercito e forze di sicurezza verso Sud indebolendo le regioni centrali e settentrionali. A gennaio la situazione è diventata ancora più incandescente dopo l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani e soprattutto del leader delle forze di mobilitazione popolare Abu Mahdi al-Muhandis con un raid statunitense nella capitale irachena. Una mossa che ha portato a un raffreddamento dei rapporti tra Washington e Baghdad che anzi ha chiesto ufficialmente il ritiro degli ultimi 5.200 militari americani presenti nel Paese. Uno scenario ideale per i terroristi.

Come in Siria anche in Iraq sono attive una serie di cellule con pochi membri. Secondo una ricostruzione di Husham Al-Hashimi per il Center for Global Policy, quello che resta dell’Isis in Iraq si è stabilito in 11 settori e conterebbe circa tra i 14.000 e 18.000 uomini. In ogni regione ci sarebbero 350-400 miliziani in servizio attivo e altri 400 divisi tra gruppi dormienti e riservisti focalizzati sulla logistica. Ogni formazione a sua volta sarebbe divisa in compagnie da 50 membri con compiti specifici. All’interno di queste ci sono poi singoli gruppi di attacco composti da 9-10 uomini.

Gli obiettivi primari dell’Isis in Iraq sono principalmente tre. Il primo prevede di fiaccare il morale delle milizie tribali sunnite fedeli al governo, formazioni simili agli “Awakening” che nel periodo 2006-2008 si battevano contro l’insorgenza islamista  dalla quale sarebbe poi nato lo stesso Stato islamico. Il secondo punta invece a crearsi uno spazio di manovra nelle aree scarsamente abitate nei pressi delle cinture rurali vicino ad alcuni centri urbani come Baghdad, Tikrit, Samarra, Mosul, e Kirkuk. Il terzo riguarda la lotta alla normalizzazione con colpi mirati a destabilizzare i processi di ricostruzione, riconciliazione settaria e controllo del territorio da parte delle forze di polizia.

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Attualmente le aree in cui operano i miliziani sono le fasce tra i confini con la Siria e quelli con l’Iran. Zone ricche di collegamenti con le rotte commerciali lungo le direttrici Est-Ovest e Nord-Sud. A preoccupare di più, però, sono le operazioni in tre governatorati, Salah al-Din, Kirkuk, Diyala, e il nord di Baghdad. Solo ad aprile gli attacchi condotti in quelle zone sono stati 87 con oltre 183 vittime. Il problema, hanno sottolineato gli analisti, è che le attività in quel triangolo rischiano di essere sempre più violente e pericolose per la tenuta di Baghdad. Se l’Isis fosse in grado di migliorare il controllo del territorio potrebbe lanciare attacchi verso le zone più a Sud come la Capitale e la città di Smarra, magari controllando alcuni tratti di autostrada e usando le stesse infrastrutture per spostare armi e uomini in altre province per attaccare convogli militari, rifornimenti, strutture di telecomunicazione ed elettriche.

Il motivo per cui l’Isis sta bersagliando questi settori, hanno spiegato delle fonti di intelligence irachena, sono diversi. Si va da operazioni estorsive, alla riattivazione di cellule dormienti, tanto che a inizio maggio l’esercito iracheno ha lanciato l’operazione “Desert lions” per colpire i gruppi che si annidano nelle zone desertiche. Ma le bandiere nere non si limitato a questo. Vogliono tornare a inasprire le tensioni tra sunniti e sciiti e sopratutto diventare abbastanza forti per attaccare i campi in cui sono detenuti i miliziani incarcerati dopo il crollo del califfato.

L’intero quadro che abbiamo delineato desta particolare preoccupazione perché al momento manca una strategia comune che faccia ripartire la pressione contro il gruppo. Come abbiamo visto le condizioni di fragilità e instabilità di Siria e Iraq ci sono ancora e anzi in alcuni casi sono peggiorate. Per frenare questo ennesimo ritorno dello Stato islamico servirebbero operazioni massicce con scambio di informazioni tra gli attori coinvolti e il superamento delle milizie popolari, adatte a una guerra tradizionale, com’è stata la riconquista di Raqqa e Mosul, ma non a una nuova guerra al terrore.

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