Partiamo dai numeri. Oggi nelle celle di Guantanamo, la base navale Usa in territorio cubano, sono ancora incarcerati 40 detenuti. Tra di loro, la mente che ha progettato gli attacchi dell’11 settembre 2001, Khalid Sheikh Mohammed, e molti altri terroristi di Al Qaeda. Nonostante da quella stagione siano passati quasi 20 anni, i detenuti potrebbero restare dietro le sbarre ancora a lungo. Ma da quelle celle c’è anche chi è riuscito a uscire. C’è chi è stato scarcerato e poi è scomparso e chi, invece, è tornato a fare quello che faceva: compiere attentati.

Il campo di detenzione è nato ufficialmente nel 2002, durante la “War on Terror” lanciata dall’amministrazione Bush dopo l’attacco al World Trade Center. Negli anni, la popolazione carceraria ha subito diverse variazioni, con il picco raggiunto nel giugno del 2003 con 684 persone detenute.

In 18 anni di vita, ben 731 detenuti sono transitati per l’isola caraibica, nove di questi non sono mai usciti perché morti durante la detenzione. A riempire le celle, soprattutto nella prima fase, sono stati afghani, sauditi, yemeniti e pakistani. Nell’ottobre del 2001, gli Stati Uniti hanno iniziato la guerra in Afghanistan e i primi arresti non hanno riguardato solo leader e combattenti di al Qaeda, ma anche moltissimi miliziani e capi talebani.

Negli anni scarcerati oltre 700 detenuti

Il via vai è stato incessante quasi da subito. Già nel febbraio 2004 i prigionieri trasferiti erano 106 e negli anni successivi i movimenti sono aumentati. Un momento significativo per la struttura è arrivato nel 2009, quando la nuova amministrazione di Barack Obama ha deciso di chiudere il carcere. Secondo l’ordine esecutivo del presidente la struttura andava svuotata entro un anno, ma alla fine tutto è rimasto uguale perché il Senato ha bocciato la proposta con 80 voti contrari.

La preoccupazione principale era quella di gestire i combattenti, il loro trasferimento, e l’eventuale pericolosità di alcuni di loro. Nel 2012 l’Intelligence Authorization act per l’anno fiscale 2012 prevedeva che il direttore della National Intelligence Agency, quello della Cia e quello della Dia rendessero pubblici i dati relativi ai tassi di recidiva degli ex detenuti di Guantanamo. I dati più recenti di questo monitoraggio risalgono al gennaio del 2019. Prima del 2009, anno dell’ordine esecutivo, i combattenti recidivi, tornati alla lotta, erano 115 sui 532 trasferiti all’estero, il 21,6%. 82 (il 13,7%) erano invece quelli dal destino incerto, cioè detenuti dei quali si sospetta un ritorno alla militanza ma senza conferme definitive. Post 2009 i numeri sono stati più bassi, con solo il 4,6% di detenuti tornati alla lotta armata e il 9,1% di sospetti recidivi.

Un documento del Pentagono datato aprile 2009 che indica i primi ex detenuti tornati al jihad

Osservando tutto il periodo è anche possibile vedere qual è stato il destino di questi combattenti. 38, tra recidivi confermati e sospettati, sono morti, mentre 39 sono quelli complessivamente tenuti in custodia da governi locali. Il dato più preoccupante, però, riguarda i latitanti. Ben 67 sono quelli ancora attivi come combattenti e 78 quelli sospettati. Nel 2009 un rapporto del Pentagono spiegava che almeno un detenuto su sette di quelli che allora erano transitati per la prigione era tornato al jihad. Sempre secondo una stima dell’amministrazione Obama, almeno 12 detenuti rilasciati avrebbero poi colpito obiettivi americani, soprattutto in Afghanistan.

Da Guantanamo ad al Qaeda nella Penisola araba

Tra i rilasciati che sono tornati a combattere ci sono anche dei casi emblematici. Per capire il livello di pericolosità si può partire dalla storia di Yasir al Silmi, yemenita noto anche come Muhammaed Yasir Ahmed Taher. Identificato come detenuto 679, è stato arrestato in Pakistan nel 2002 e considerato affilato a una cellula di Al Qaeda. Senza essere mai formalmente incriminato, è stato poi rispedito in Yemen nel dicembre del 2009. Otto anni dopo, nel marzo del 2017, al Silmi è stato ucciso nel corso di un raid americano nel governatorato di Abyan. La particolarità di questa esecuzione è che l’ex detenuto non era l’obiettivo primario dell’attacco, ma anzi si trovava nella stessa stanza con Usayd al Adnani, un operativo di alto profilo di al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap). Per il Pentagono al Silmi era una figura di poco conto, ma il fatto che si trovasse lì dimostrava una qualche forma di ritorno alla militanza.

Il caso di al Silmi non è il solo a dimostrare una certa capacità attrattiva dello Yemen per gli ex detenuti vicini ad Al QaedaUn altro esempio è quello di Said Ali al-Shihri. Cittadino saudita nato a Riad, è stato portato a Guantanamo tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 per poi essere rispedito a Riad nel novembre del 2007. Da quel momento, ha iniziato un lungo percorso di militanza in al Qaeda culminato nel 2009, quando è apparso in un video che annunciava la nascita di Aqap. Quattro anni dopo al Shihri, che nel frattempo era diventato vice del gruppo, è stato ucciso con un raid americano.

Nel famoso filmato del 2009, accanto ad al Shihri c’erano altri tre volti noti: Nasser al Wahaishi, primo leader della formazione ucciso da un drone Usa nel 2015; Qasim al Raymi, successore di al Wahaishi e ucciso in un altro strike americano nel gennaio di quest’anno; e infine un quarto personaggio identificato con molti nomi: Mohamed Atiq Awayd Al Harbi, noto anche come Muhammad al Awfi e Abu Hareth Muhammad al-Oufi. Al Oufi era il detenuto 333 di Guantanamo e come al-Shihri è stato rilasciato nel novembre del 2009. Ad oggi risulta essere l’ultimo rimasto vivo del quartetto, anche se la sua posizione risulta incerta.

Tra i rilasciati eccellenti finiti tra le file di Aqap, c’è anche Ibrahim Sulayman Muhammad al-Rubaysh, altro saudita, altro internato a Cuba. Catturato nel dicembre 2001 in Afghanistan e portato a Guantanamo il 16 gennaio 2002, al Rubaysh è stato rilasciato poco dopo, il 13 dicembre del 2006. Tre anni dopo, secondo una ricerca del think tank Jamestown Foundation, al Rubaish si sarebbe unito ad Aqap in qualità di muftì e avrebbe militato nella formazione in Yemen almeno fino al 2015 quando un drone Usa ha colpito la sua abitazione nei pressi del centro di Mukalla.

Lo Yemen, però, non è l’unico Paese in cui gli ex detenuti sono tornati a combattere. Nel novembre scorso, il dipartimento del Tesoro Usa ha imposto una serie di sanzioni contro organizzazioni e individui per aver dato supporto finanziario allo Stato islamico. Tra questi c’è anche Rohullah Wakil. Secondo le autorità americane Wakil, come membro dell’organizzazione solidale Nejaat Social Welfare Organization, avrebbe contribuito a raccogliere fondi per lo Stato islamico nella provincia del Khorasan. Wakil, matricola 798, è stato incarcerato a Cuba nel 2002 per poi essere rimpatriato in Afghanistan il 30 aprile del 2008.

I problemi nella tracciabilità

È chiaro che la tracciabilità completa non è semplice. Il 7 aprile del 2009, poco più di tre mesi dall’ordine esecutivo di Obama, la Dia ha rilasciato una prima lista di presunti ex prigionieri tornati al jihad, ma da allora non è stato possibile avere altre liste dettagliate. L’ordine di Obama aveva lasciato in eredità anche un’altra cosa: un ufficio di controllo, lo “Special Envoy for Guantánamo Closure”, con il compito di negoziare e monitorare i rilasci. Un sistema complicato che prevedeva negoziazioni con Paesi terzi per il trasferimento e il controllo delle persone tenute a Guantanamo. Verso la fine del 2018, l’amministrazione Trump ha deciso di chiudere l’ufficio con sede al dipartimento di Stato, per riaccentrare il controllo nella base. Se da un lato questo ha ottimizzato le risorse, dall’altro ha limitato la possibilità di controllo dei rilasciati.

In questo senso ci sono due casi emblematici. Il primo è quello di Abu Wa’el Dhiab. Nato in Libano da padre siriano e madre argentina, negli anni 90 aveva lavorato come autista per l’aviazione siriana per poi trasferirsi in Pakistan verso la fine del decennio. Da lì, grazie all’aiuto di alcuni facilitatori locali, ha passato dei periodi in Iran e Afghanistan fino alla cattura nell’aprile del 2002. Trattenuto per lo più come informatore dati i suoi legami con talebani e reclutatori di al Qaeda, Dhiab è stato poi traferito in Uruguay nel dicembre del 2014. Nell’estate del 2018, però, l’uomo ha fatto perdere le sue tracce. Secondo il ministro dell’Interno uruguagio, Jose Gonzales, sentito dal magazine McClachy, l’ex detenuto avrebbe attraversato il confine con il Brasile e preso un volo da San Paolo per la Turchia.

Fonti dell’intelligence siriana avrebbero poi confermato che Dhiab sarebbe entrato e uscito più volte dalla Siria, in particolare dalla regione di Idlib controllata in larga parte da gruppi islamisti e dall’ex fronte qaedista di Tahrir al-Sham. Il problema è che tutti questi passaggi sono sfuggiti alla giustizia americana, come confermano episodi analoghi in altri Paesi che hanno ospitato ex detenuti. Il Senegal ne ha rispediti due in Libia, mentre dei 23 trasferiti negli Emirati Arabi Uniti non si hanno più notizie. Tra gli otto trasferiti in Slovacchia tra il 2010 e 2014, quattro sono scappati. Uno di questi, Rafik al Hami sarebbe tornato in Tunisia. Oggi di lui si sono perse le tracce, ma secondo la madre sarebbe morto in Siria negli ultimi anni.





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