La cattura del capo dell’Isis Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi nelle ultime ore ha riproposto un’iconografia alla quale il mondo post-11 settembre ci ha ben abituato. La nota situation room, ove il presidente degli Stati Uniti, attorniato dalla sua stretta Camelot, monitora accigliato l’andamento di un’operazione rischiosa. Segue un’esultanza patinata per la missione compiuta e conferenza stampa di rito nella quale si annuncia che il nemico è stato eliminato. Al di là dello stile, del grado di pietas nelle parole usate, questi momenti topici delle amministrazioni a stelle e strisce sono spesso giunti con un certo grado di sospetta serendipità, proprio nel momento in cui erano più necessari che mai all’inquilino della Casa Bianca, affetto da un crollo di popolarità o alle prese con subbugli interni.
Joe Biden e al-Qurayshi
“L’atto finale di un codardo”: con queste dure parole il presidente degli Stati Uniti ha bollato il suicidio di Qurayshi, “sfuggito” tecnicamente alla cattura americana. Non si può negare che la morte del capo dell’Isis giunga in un momento molto complesso per l’amministrazione Biden, impelagata contemporaneamente nella battaglia per il China second e la vicenda Ucraina nella quale deve fronteggiare lo storico nemico russo. Ma i nemici sono anche e soprattutto all’interno, al Congresso, specialmente in vista delle elezioni di metà mandato che preannunciano un prossimo biennio tutto in salita. C’è poi il fantasma di Trump, che quasi metà della nazione rimpiange, e quella generale sensazione di spaesamento, di fragilità, di schizofrenia da attacco imminente che forse è seconda solo al dopo-11 settembre.
Nella prima settimana di febbraio tutti i principali sondaggi vedono la popolarità del ticket Biden-Harris scendere vertiginosamente toccando un range che va dal 49 al 59% di disapprovazione. La cattura delle spoglie di Qurayshi risponde ad una pluralità di esigenze: l’idea di dare un’immagine ancora efficiente e vigile dell’amministrazione; l’idea di non aver abbandonato la lotta senza quartiere al terrorismo e all’Isis, che proprio in queste settimane rialza la testa; il messaggio che il nemico è ancora all’esterno, sperando in un rally under the flag effect come fu sulle macerie del World Trade Center. Ma i tempi sono cambiati: pandemia e nuova Guerra Fredda edulcorano qualsiasi cattura. Eppure, la storia insegna che Ronald Reagan ce l’ha fatta. Così ha fatto Bill Clinton. Lo ha fatto anche Barack Obama. Può farlo anche Joe Biden? Dopo i primi due anni difficili alla Casa Bianca, Reagan, Clinton e Obama hanno ricostruito un sostegno pubblico sufficiente per vincere un secondo mandato, non molto tempo dopo che molti osservatori li avevano etichettati come spacciati.
Donald Trump tra al Baghdadi e Solemaini
Anche l’ingombrante presidente uscente ha ceduto più volte al fascino del trofeo di guerra. La prima volta accade il 27 ottobre del 2019 e il target fu Abu Bakr al-Baghdadi, un altro capo dell’Isis, il terrorista più ricercato al mondo. Il Presidente USA utilizzò la cattura come una provocazione all’interno della NATO, ringraziando per la collaborazione Russia, Turchia, Iraq, Siria e anche i curdi siriani; per gli alleati europei solo poche parole nelle risposte ai giornalisti, rei di inerzia rispetto al problema del rimpatrio dei foreign fighters. Una cattura così importante, però, non gli fece risalire la china, garantendogli solo un rialzo di qualche decimale nella settimana. Il cappello su una crisi considerata chiusa, a suo dire, avrebbe dovuto permettergli di abbandonare l’area e dedicarsi alla rielezione.
Il 3 gennaio 2020 molte cose devono ancora avvenire come la pandemia o Capitol Hill quando il capo delle forze iraniane Quds, Qasem Soleimani viene ucciso in un attacco con drone statunitense sull’aeroporto internazionale di Baghdad. Per svariati giorni gli equilibri mondiali sembrano vacillare. L’ordine è partito direttamente dal presidente. L’asse del male è colpito nuovamente a suon di “il mondo ora è un posto più sicuro” e Trump lo annuncia in maniera telegrafica alla nazione. Anche questa volta, però, il borsino della popolarità non sembra beneficiarne: il mese di gennaio l’approvazione per Trump si attesta attorno al 42,8% facendo registrare perfino un lieve calo rispetto alle settimane precedenti. L’errore di fondo, forse, quello di tentare di recuperare popolarità con un obiettivo sconosciuto all’uomo della strada, seppur potente in patria. Il principale effetto nefasto? Averne fatto un martire in casa, compattando la società iraniana nella solidarietà ai pasdaran, obbligando i moderati a giurare di vendicare il loro rivale e mettendo a tacere i laicisti.
Barack Obama, bin Laden e Gheddafi
Undici anni fa, altra situation room. Era il 2 maggio del 2011 quando Barack Obama, Hillary Clinton e Joe Biden seguivano con apprensione l’Operation Neptune Spear che, in quel di Abbottabad, portò alla cattura di Osama bin Laden. Alle 23.35, il presidente Obama comparve sulle principali reti televisive, esordendo con con una laconica ma fiera comunicazione: “Buonasera. Oggi, posso informare gli americani e tutte le persone del mondo che gli Stati Uniti hanno condotto un’operazione che ha ucciso Osama bin Laden, il capo di al-Qaida, nonché un terrorista responsabile della morte di migliaia di innocenti, uomini, donne e bambini…”. Soddisfatto, fermo, ma non guascone. Secondo un sondaggio del Washington Post e del Pew Research Center, la morte di Osama bin Laden diede una spinta significativa alla popolarità del presidente Obama, pur non mitigando i timori degli americani sulla sua gestione dell’economia. All’indomani del blitz nel famigerato compound, il 56% degli americani affermò di approvare la performance complessiva di Obama: nove punti percentuali in più rispetto a un sondaggio di ABC News/Washington Post del mese precedente e il punteggio più alto per Obama dal 2009.
Passano alcuni mesi, è l’ottobre del 2011. Dall’inizio dell’anno le presunte primavere arabe agitano il Medio Oriente e il nord Africa. La mattina del 20 ottobre, l’ex presidente libico Muammar Gheddafi si stava nascondendo in un canale di scolo sotterraneo a Sirte. Le milizie ribelli del Consiglio nazionale di transizione lo trovano e lo catturano. Le immagini del pestaggio e della morte violenta fecero il giro del mondo. Moriva il Rais, il simbolo della Libia contemporanea, il nemico-amico dell’Occidente che, paradosso della storia, nel 1994, attraverso richiesta all’Interpol, emise il primo mandato di cattura internazionale sulla testa di Bin Laden, che lavorava a un colpo di Stato in Libia. Barack Obama, in quel momento incastrato tra il mid term dietro di sé e la scommessa della rielezione davanti a sé, dichiarò che l’uccisione di Gheddafi rappresentava un messaggio ai dittatori di tutto il mondo. Intervistato, poi, nel corso della trasmissione dell’Nbc “Tonight Show with Jay Leno”, lo definì come l’uomo che per 40 anni aveva “terrorizzato e supportato il terrorismo nel suo Paese”. Se la morte di bin Laden aveva fatto guadagnare al presidente 11 punti percentuali, la cattura di Gheddafi provocò un incremento di sei punti in appena un paio di giorni: se per la Gallup il 17 ottobre il 38% degli americani si esprimeva positivamente sul presidente, il 22 ottobre ad applaudirlo c’era il 44%. Un dato che poi andò stemperandosi nel corso delle settimane successive.
George Bush Jr., Hussein e al Zarqawi
Dopo una rocambolesca assegnazione della presidenza, i primi mesi dell’amministrazione Bush furono all’insegna del Rambo style: rifiuto del protocollo di Kyoto, ritiro dal Trattato ABM, mancata ratifica della Corte Penale Internazionale lo dipinsero come un vero falco neocon. Meno di un anno dopo dalla sua elezione, il presidente si trovava sulle macerie del World Trade Center che aprì la ventennale war on terror. I consensi sfioravano l’85%. Il trofeo bin Laden, però, non arriva e Bush deve fare i conti con un Paese terrorizzato e una Nato che ancora sconta gli echi della Prima Guerra del Golfo. Durante le elezioni per il Congresso tenutesi a metà del mandato presidenziale, nel 2002, Bush ottenne il più alto livello di consensi nelle elezioni di mezzo termine dai tempi di Dwight D. Eisenhower e, di conseguenza, il Partito Repubblicano riprese il controllo del Senato e aumentò la sua maggioranza nella Camera dei Rappresentanti. Questi risultati hanno segnato una deviazione insolita alla tendenza per il partito del Presidente di perdere seggi al Senato durante le elezioni di metà mandato. Nel 2003, i consensi per Bush continuano la loro lenta discesa: i risultati di tredici sondaggi principali erano concordi nell’indicare un calo decisamente costante dell’1,7% al mese. Verso la fine del 2003, le percentuali dei consensi si aggiravano intorno al 50-55%.
Nel frattempo, l’Iraq diventa il mezzo per terminare il lavoro del padre: con l’operazione Red Down, il 13 dicembre Saddam Hussein viene catturato: la percentuale di americani intenzionati a votare l’incumbent alle presidenziali dell’anno successivo aumentava del 3% rispetto al weekend precedente. Tre anni dopo, la condanna a morte porta Hussein verso l’impiccagione, i cui fotogrammi macabri hanno fatto anch’essi il giro del mondo. Tuttavia, i consensi rimasero ancora solidi durante il terzo anno della Presidenza, quando, come di norma, gli avversari del Presidente iniziano a fare i conti della serva sui Grandi Elettori. La maggior parte dei sondaggi mostrava una correlazione tra il calo dei consensi e una crescente preoccupazione sull’andamento dell’occupazione dell’Iraq, oltre al lento recupero dell’economia dalla recessione del 2001.
Assicuratasi la riconferma, nel 2006 spunta un nuovo asso nella manica: il 7 giugno viene ucciso Abu Musab al Zarqawi, capo di al Qaida in Iraq. L’evento fece salire di sette punti la popolarità del presidente che, nel mese precedente, arrancava attorno ad un 31% che segnava il minimo storico della sua popolarità, fiaccata da sei anni di guerra preventiva e di giovani americani tornati a casa avvolti nella bandiera. Nelle elezioni di medio termine di quell’anno, i democratici sbaragliarono la concorrenza: dopo 12 anni soffiarono la maggioranza delle cariche da rinnovare.
Due anni dopo, inesorabile, la legge del pendolo tornò a colpire.