Sono 4mila i cittadini europei ad aver lasciato le proprie case per partire alla volta dell’Iraq e della Siria ed unirsi alle file dello Stato Islamico. A fornire i dati più aggiornati sul fenomeno dei foreign fighters europei è il rapporto annuale dell’Agenzia Europea dei Diritti Fondamentali (Fra).
E secondo la classifica stilata dall’agenzia comunitaria, a detenere il record di cittadini presenti nelle file dell’Isis è la Francia, con 1.500 persone che hanno strappato il passaporto francese per diventare cittadini del Califfato. Seguono Germania e Regno Unito, che hanno fornito allo Stato Islamico 700 jihadisti, ed il Belgio, recentemente colpito dagli attentati a Bruxelles, da dove provengono 440 foreign fighters. E poi, Svezia, Paesi Bassi, Austria e Danimarca, con rispettivamente 300, 250 e 150 combattenti. Sono infine un centinaio i jihadisti europei partiti dalla Spagna, 70 dalla Finlandia e 30 quelli irlandesi.
Il nostro Paese si pone in fondo alla classifica con 80 foreign fighters italiani – secondo l’Agenzia Europea dei Diritti Fondamentali, 87 secondo i dati del nostro Ministero dell’Interno – che tra il gennaio 2011 e la fine di ottobre del 2015 hanno raggiunto i teatri di conflitto in Siria e in Iraq. Di questi, secondo il Viminale, 18 sarebbero morti e 57 sarebbero ancora attivi nelle zone di guerra. Sono almeno 15 quelli che si sono uniti all’Isis, due quelli che combattono con al Nusra e sette quelli che combattono nelle forze d’opposizione al governo di Assad.
È la Francia, però, a detenere il record negativo di cittadini radicalizzati. La peculiarità dei foreign fighters francesi è che non appartengono ad una regione in particolare, o ad una classe sociale specifica. Secondo gli ultimi dati diffusi, tutti provengono da contesti socioeconomici disparati. E sono moltissime anche le donne francesi, circa 200, che si sono unite allo Stato Islamico e le famiglie che scelgono di trasferirsi nel Califfato, compresi 10 minori, che vivrebbero stabilmente in Siria e Iraq. Il 75% dei foreign fighters francesi combatte con l’Isis, mentre solo il 25% con al Nusra.
Giovani disoccupati, precari, con precedenti penali e noti alle forze dell’ordine, sono invece i combattenti partiti dalla Germania. Ai jihadisti tedeschi basta meno di un anno per radicalizzarsi e decidere di partire. Arrivano in Siria soprattutto dal Nord Reno Vestfalia, dall’Assia, ma sono in molti a partire da Berlino o Amburgo. Un centinaio sarebbero già morti negli scontri, almeno 20 compiendo attentati suicidi. Circa 250 sono tornati in Europa.I foreign fighters con cittadinanza britannica sono giovani – la maggior parte ha meno di trent’anni – ma a differenza dei colleghi tedeschi, hanno un livello di educazione scolastica più elevato. Secondo l’Office for Security and Counter-Terrorism (Osct) britannico, 315 sono ancora a combattere nell’Isis, mentre l’altra metà è tornata in Europa.
È invece il Belgio, recentemente scosso dai tragici attentati alla stazione della metropolitana di Maelbeek e dell’aeroporto di Zaventem, a vantare, se così si può dire, il più alto tasso di “jihadisti pro-capite” in Europa. Su 11 milioni di abitanti, 440 sono foreign fighters. L’età media è di 25 anni, ma può spingersi anche fino a 69. Dalla capitale belga, in cui già da qualche anno il nome più diffuso nelle liste dell’anagrafe è Mohammed, sono partiti circa 100 jihadisti, molti dei quali risiedevano nell’ormai famoso quartiere-ghetto di Molenbeek. In 79 sono legati al gruppo Sharia4belgium, un’organizzazione che vorrebbe trasformare il Belgio in uno Stato islamico. Le donne sono 47 e il 6% dei foreign fighters non erano musulmani, ma si sono convertiti all’Islam subito prima di maturare la decisione di partire verso il Califfato. Una curiosità: ci sono anche cinque cittadini belgi che sono partiti per combattere tra le fila dell’esercito governativo.
E secondo quanto si legge oggi a pagina su La Stampa, l’attività di reclutamento in Europa sarebbe in ulteriore aumento. Anche per il quotidiano di Torino, inoltre, che cita i dati diffusi nell’incontro organizzato a Torino dall’Istituto delle Nazioni Unite per le ricerche su crimine e giustizia (Unicri) ed Interpol, tracciare un identikit del foreign fighters “modello”, è attualmente impossibile, data l’enorme varietà dei profili a cui appartengono i jihadisti europei. Secondo i dati citati, però, si può affermare che un terzo dei foreign fighters sono cittadini europei convertiti, mentre due terzi proverrebbero da famiglie immigrate trasferitesi in Europa.
Ma se la rete dei reclutatori del Califfato è globale ed è penetrata in profondità nelle maglie della società europea, non sono altrettanto collegati ed interconnessi i nostri servizi di intelligence. Manca infatti in Europa una efficace condivisione di informazioni e un database comune che permetta di accedere ai profili e alle informazioni sui foreign fighters o sui sospettati di avere legami con il terrorismo. Una falla nella nostra sicurezza dimostrata, ad esempio, dal caso dei fratelli Bakraoui: uno espulso con l’accusa di terrorismo dalla Turchia e rilasciato dal Belgio, l’altro transitato avanti e indietro in Europa dalla Turchia passando pure per l’Italia, prima di far saltare in aria la metropolitana e l’aeroporto di Bruxelles.
Lo scambio di informazioni rappresenta, quindi, una delle armi più potenti a nostra disposizione per assicurare la sicurezza e prevenire gli attentati, ma, come evidenzia l’Interpol, citata da La Stampa, molti database sono ancora incompleti o inaccessibili.Se il numero dei foreign fighters europei aumenta di anno in anno, quindi, – senza contare quelli provenienti dai paesi extra Ue, come la Bosnia o il Kosovo, divenuti tra i principali bacini di terroristi da cui attinge lo Stato Islamico – la sicurezza e le intelligence europee sembrano rimanere al palo. A farne le spese è la sicurezza del nostro continente, sempre più minacciato dagli attacchi dei cittadini radicalizzati già presenti sul nostro territorio, e dall’azione dei combattenti di ritorno.