Nella lotta al terrorismo islamista, succede che gli Stati s’impegnino in politiche d’integrazione che lasciano abbastanza perplessi i cittadini. Politiche che dovrebbero rappresentare una risposta lungimirante a una grave minaccia che incombe sulla popolazione e che, il più delle volte, si riducono a meri spot elettorali o annunci per mostrare un lato politicamente corretto di fronte a un mondo che chiede misure draconiane. In questo, noi europei siamo sicuramente maestri. Soprattutto nei Paesi dell’Europa settentrionale, dove da tempo si assiste a una serie di iniziative (a dir poco) curiose per manifestare la volontà degli Stati di mostrare il lato pulito e perfetto di un’integrazione che sta naufragando di fronte all’evolversi degli eventi. Un esempio di questo cortocircuito sul fronte integrazione e repressione del terrorismo internazionale ci viene proprio da lì, dal Nord Europa, e in particolare dalla Danimarca. Nel comune di Aarthus, la seconda città più popolosa della Danimarca, l’amministrazione cittadina e la polizia hanno deciso di dare il via alla campagna “Abbraccia uno jihadista”. Lo scopo dell’iniziativa sarebbe quello di accogliere e mostrare il calore della comunità nei confronti degli appartenenti alle comunità islamiche radicali, evitando che questi soggetti si sentano isolati e siano dunque spinti a colpire lo Stato o la città che li ospita. Inoltre, si chiede ai cittadini di mostrarsi aperti nei confronti dell’immigrazione facendo in modo che i giovani delle comunità lavorino nelle aziende dei cittadini danesi.
La città di Aarthus è da sempre pioniera di questo genere di politiche di prevenzione dello jihadismo, tanto che lo stesso presidente Obama invitò personalmente il sindaco a Washington per congratularsi dell’importante ruolo svolto dalla città per contrastare, a detta di Barack Obama, il terrorismo internazionale. Poi nel 2015 Copenaghen piombò di nuovo nel terrore, e questi programmi furono immediatamente messi a dura prova sia dagli eventi sia dai partiti politici di stampo conservatore o più marcatamente nazionalista, che ritenevano fosse ormai superato il tempo della prevenzione. Nonostante questo, Aarthus continua in questa singolare lotta per l’integrazione, e lo fa con questa iniziativa che ha destato molte perplessità anche a livello internazionale. Soprattutto perché pone un problema di natura sociale non indifferente, facendo un ragionamento inverso rispetto alla radicalizzazione, e cioè che non è il soggetto a scegliere la strada del terrorismo internazionale perché convinto, ma perché esisterebbe una sorta di costrizione della comunità che lo isola. Nei media che hanno riportato la vicenda, si fa spesso riferimento a un ex jihadista, tale Jamal, che non avendo legami con la comunità locale danese si sarebbe messo ad ascoltare sermoni fondamentalisti di un imam pachistano e poi convinto del jihad come soluzione ai problemi della mancanza di lavoro e di legami umani.
Il punto fondamentale della questione non è l’iniziativa in sé, ma il contesto da cui scaturisce e le soluzione che in realtà non adotta. Perché la Danimarca, non solo non ha fermato il fenomeno del radicalismo islamico, ma adesso rischia di dare opportunità case e lavoro ai foreign fighters di ritorno al solo scopo di mostrare il lato migliore delle politiche migratorie dello Stato. Perché il punto fondamentale è che il cosiddetto metodo Aarthus non fa distinzioni: tutti gli immigrati, dal rifugiato siriano al salafita di ritorno dalla guerra sono tutti soggetti deboli con cui lo Stato deve relazionarsi in senso quasi paternalistico. Tutto ciò, ed è questo il problema, non solo non garantisce il fenomeno della cosiddetta de-radicalizzazione del terrorista – che al limite può solo beneficiare delle politiche di accoglienza pur rimanendo assolutamente convinto di ciò che ha fatto o di ciò che è – ma rischia di creare una penosa uguaglianza fra l’immigrato in fuga dalla guerra o in cerca di lavoro e l’immigrato, anche di seconda generazione, che si è autonomamente inserito nelle dinamiche del terrorismo internazionale. Inoltre, ed è questa la denuncia degli stessi musulmani conservatori in Danimarca, si rischia di garantire ai foreign fighter di ritorno di non essere oggetto di condanna da parte dello Stato, creando un circolo vizioso da cui è difficile uscirne. I sostenitori del metodo Aarthus segnalano che sono due anni che nessun jihadista parte dalla città – che ricordiamo, ha solo 300mila abitanti e un decimo è immigrato di prima o di seconda generazione. I detrattori ritengono che in realtà questo sistema non possa applicarsi ora, dal momento che i miliziani Isis che tornano dalla Siria non ripartiranno, perché il Califfato è sconfitto, e rimarranno in Danimarca, forse cambiando vita grazie agli aiuti o, forse, perpetrando il loro disegno criminale nel Paese ma con gli aiuti economici e il sostegno morale dell’amministrazione pubblica. Rischi che devono essere calcolati di fronte a una minaccia oscura quale il jihad 2.0 dello Stato Islamico.