È l’ennesimo attentatore noto ai servizi di intelligence che ha portato il terrore nel cuore dell’Europa. Stiamo parlando di Adam Lotfi Djaziri, l’uomo che ieri si è schiantato contro un furgone della Gendarmerie Nationale sugli Champs-Elysées.
Nato nel 1985 in Francia, Djaziri, di madre polacca e padre algerino, tornava spesso in Tunisia, dove frequentava, secondo quanto riporta Le Parisien, ambienti estremisti islamici, in particolare Ansar Al Sharia. Per questo motivo era segnalato come “fiche S”: un pericolo per la sicurezza dello Stato francese.
Per cercare di comprendere di più come mai i terroristi noti all’antiterrorismo riescano a colpire l’Occidente, abbiamo contattato il professor Marco Lombardi, docente presso l’Università Cattolica di Milano e direttore di ItsTime, Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies, il quale ci ha spiegato che “ci sono due ordini di problemi nella sicurezza di Parigi. Il primo è che in Francia ci sono molti aspiranti terroristi ed è difficile monitorarli tutti. Il monitoraggio di una persona per 24 ore occupa infatti almeno 6 persone al giorno. Se hai mille aspiranti jihadisti da monitorare – e in Francia sono molti di più – ti servono almeno seimila persone. C’è quindi un enorme problema di risorse. Djaziri era classificato come ‘fiche S’, dopo esser stato monitorato in carcere. Purtroppo, però, c’è ancora uno scollegamento procedurale tra ciò che succede in prigione e ciò che succede fuori. Questo non è solo un problema della Francia, ma anche di tutti i Paesi europei”.
Per Lombardi, infatti, anche l’Italia soffre un problema simile: “Il nostro Paese sta monitorando i processi di radicalizzazione in carcere, dove persone con un passato criminale e non ancora radicalizzate sentono le sirene del jihad. Tutto questo viene registrato. In Francia vieni segnalato con la ‘S’, in Italia ci sono altre classifiche. Il problema nasce quando gli aspiranti terroristi escono dalle carceri, in quanto non esistono ancora protocolli che prevedono il loro monitoraggio. Insomma, sappiamo tutto finché sono dentro, ma una volta liberi rischiamo di perderli”.
Una falla enorme nella sicurezza europea. “Il Califfato sta per compiere tre anni”, afferma il professore. “E tre anni sono un periodo piccolissimo per cambiare cultura e approccio per arrivare a nuove normative per affrontare un fenomeno nuovo come quello del terrorismo che viene proposto dal Califfato. Il punto è questo: tutto sta correndo con una rapidità incredibile, c’è un attentato a settimana in Europa. L’antiterrorismo è stato insomma preso di sorpresa“.
Il cambiamento di strategia dell’Isis è dovuto principalmente allo smantellamento del suo Stato: “Un anno fa il Califfato ha invitato gli aspiranti terroristi a non partire per la Siria e l’Iraq e a rimanere nei propri Stati di appartenenza. A novembre del 2014 i miliziani dell’Isis hanno cominciato a chiedere affiliazione ai gruppi jihadisti sparsi in tutto il mondo. Subito, lo Stato islamico ha cominciato ad assicurarsi altri alleati nel mondo. Quando si è reso conto di perdere l’Iraq ha bloccato l’afflusso dei foreign fighter. Una strategia che gli ha permesso di portare la guerra in Occidente: non c’era bisogno di esportare i combattenti perché si trovano già tra noi”.