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Lina Khan si è appena insediata alla guida della Federal Trade Commission (Ftc) ma la sua nomina ad opera del presidente Joe Biden ha già prodotto effetti interessanti. L’avanzata delle proposte favorevoli a una regolamentazione del potere di mercato del big tech, culminate nel deposito di cinque progetti di legge bipartisan al Congresso, e la chiamata dell’agguerrita 32enne docente alla Columbia University alla guida dell’antitrust Usa ha creato un combinato disposto interessante. In sostanza la politica statunitense, che sino ad ora aveva incardinato il big tech nelle coordinate strategiche e “geopolitiche” ottimali per renderlo funzionale ai suoi progetti su scala globale, aumenta la pressione anche laddove prima alle multinazionali della Silicon Valley era lasciato campo libero, ovvero sul fronte economico-finanziario.

Un primo, duplice effetto la nomina di Khan l’ha generato. Da un lato, si è rotto il fronte compatto del big tech, che nell’adattamento alla nuova, prevista ondata regolatoria è andato in ordine sparso. Pensiamo solo all’atteggiamento tenuto dai quattro player principali. Amazon ha caricato a testa bassa la giovane accademica, che proprio con ricerche critiche del metodo di oligopolio (o di vero e proprio monopolio integrato) costruito dal colosso di Seattle ha costruito, da giovane studentessa di legge, la sua fama. Arrivando a proporre a Biden di ritirare la nomina della Khan, ritenuta paziale e non super partes. “Lasciatemi prima dire che non ho alcun conflitto finanziario o relazione personale che sia la base per l’elusione ai sensi della legge federale sull’etica” è stata la risposta, diretta, della Khan.

Più sotto traccia, invece, la mossa di Mark Zuckerberg, che non ha portato il suo impero social costituito da Facebook, Instagram e WhatsApp a prendere una posizione chiara. Pago del fatto che una corte federale statunitense abbia respinto per mancanza di prove l’azione antitrust avviata dalla Federal Trade Commission  e da 46 Stati americani su 50 contro il suo gruppo, Facebook cerca di consolidarsi in attesa degli eventi.

A mostrare le maggiori inquietudini sono state invece Google e Microsoft. I colossi del tech Usa sono ben più indiziabili rispetto al gruppo di Zuckerberg di azioni potenzialmente lesive dei regolamenti antitrust: Windows e Android, i loro sistemi operativi, alimentano il 75% dei servizi digitali legati a dispositivi mobili nel mondo e tra i due gruppi da tempo era in vigore un vero e proprio patto di non aggressione funzionale a creare una governance comune degli applicativi e una competizione “temprata” che chiudesse le porte a ogni potenziale nuovo entrante, fatta salva la consolidata nicchia in mano ad Apple e iOS. Ebbene, nota Formiche, è interessante la notizia recentemente riportata dal Financial Times secondo cui Mountain View e il gruppo fondato da Bill Gates “non rinnoveranno il curioso patto di non belligeranza che avevano stipulato nel 2015 per chiudere una travagliatissima battaglia legale ed evitare di continuare a denunciarsi a vicenda. Il patto prevedeva che le due compagnie risolvessero internamente le eventuali diatribe ai più alti livelli”, senza coinvolgere i tribunali. Paradossalmente, tornare a mostrarsi reciprocamente la faccia feroce delle cause giudiziarie può evitare di incorrere nella futura scure dell’Antitrust.

Ancor prima di aver avviato le sue prime indagini, l’Antitrust a guida Khan sta già diventando un attore politico rilevante nel contesto a stelle e strisce. La notizia più importante è che, dopo la pandemia, la crisi economica e la fase di transizione apertasi, anche negli Stati Uniti molti dogmi riguardo l’inviolabilità dei colossi del digitale, “vincitori” della fase di crisi, stanno iniziando a franare. Anche il Partito Repubblicano, dall’opposizione al governo Biden, sta preparando mosse che vanno nella direzione della nuova stretta contro lo strapotere del Big Tech: Brendan Carr, commissario della Commissione federale per le comunicazioni (Fcc), propone una tassa fissa sulle aziende del digitale volto a finanziare un programma nazionale per potenziare l’accesso a Internet in modo tale che questi costi non ricadano esclusivamente su una parte delle bollette pagate ogni mese dai cittadini statunitensi. Il mondo è in movimento e il big tech si trova nella difficile situazione di avere poche armi di lobbying a sua disposizione: il terreno sembra propizio per aprire la discussione sui progetti di legge bipartisan che possono cambiare definitivamente i rapporti tra la politica Usa e i poteri della tecnologia.

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