La corsa allo spazio si va facendo sempre più muscolare e il caso del test russo condannato dagli Stati Uniti mostra la complessità della partita per la “frontiera infinita” degli spazi orbitali. Una partita che si gioca fuori dall’atmosfera terrestre ma riguarda, molto da vicino, le dinamiche di potenza del pianeta.
Lo spazio è ormai un dominio di competizione imprescindibile. E questo, in primo luogo, per i fondamentali dividendi in termini di accelerazione della proiezione geoeconomica di una potenza che permette di acquisire e per gli impatti sulla taglia scientifica, tecnologica, industriale di ogni potenza. Non è un caso, ad esempio, che la recente stipulazione dell’alleanza Aukus tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia abbia avuto uno spin-off immediato nella ricerca di una crescente integrazione nella comunicazione spaziale tra le tre potenze anglosassoni e che parlando di recente con Joe Biden e Kamala Harris il presidente francese Emmanuel Macron abbia cercato proprio nella collaborazione spaziale con gli States il campo in cui recuperare dopo lo schiaffo dell’Indo-Pacifico.
Effettuare test spaziali rientra dunque nella dimostrazione da parte di una potenza della capacità di aver accesso alle orbite sul fronte militare ma anche, e soprattutto, di “mostrare bandiera” come attore tecnologico e alfiere dell’innovazione di frontiera. Più ancora del recente test russo, lo dimostra il test dell’Esercito Popolare di Liberazione (Epl) cinese di agosto. “Il test”, nota StartMag, “ha colto di sorpresa la comunità di intelligence americana, non in quanto si trattasse di un vettore ipersonico ma perché ha svelato una inaspettata capacità di innovazione ed una strategia politico-militare della Cina” in materia.
Nello spazio si gioca la futura frontiera della connettività dei dati; si potranno vedere gli effetti delle nuove frontiere di comunicazione in campo tecnologico quando i satelliti di ultima generazione abiliteranno il calcolo quantistico e, dunque, una nuova frontiera della competizione informativa e di intelligence; nei prossimi anni, dall’Internet via satellite passerà una quota sempre più grande del traffico internet e, con esso, una quantità pregiata di informazioni, dati e transazioni che abiliteranno parte del valore aggiunto del terziario di frontiera; lo spazio, come dimostra il caso della Stazione Spaziale Internazionale (Iss) è laboratorio delle ricerche del deep tech ma anche un abilitatore fondamentale di innovazione e produzione di valore in ambito industriale. Del resto, questa non è una scoperta di oggi: già nella fase attuale è difficile da calcolare il valore del beneficio economici di sistemi come il Global Positioning System, legato a una costellazione di satelliti militari americani, che guida le transazioni commerciali e i movimenti terrestri di miliardi di persone, tanto da aver stimolato la reazione cinese (con Baidou) e europea (con Galielo)
La cosiddetta New space economy si basa sul presupposto che i dividendi dell’investimento nell’esplorazione spaziale possa essere trasversale. E ogni potenza si approccia ad essa con una mentalità propria del proprio sistema nazionale: la Russia puntando sull’accelerazione industriale e tecnologica data dal settore militare; la Cina facendo leva sul suo immenso apparato di capitalismo dirigista di Stato; le potenze dell’Anglosfera, Usa in primis, con il connubio tra pubblico-privato che incentiva la loro esplorazione delle frontiere dell’economia dai tempi della Compagnia delle Indie in avanti.
Del resto, la realizzazione della prima navetta spaziale privata prodotta dalla SpaceX di Elon Musk, la Crew Dragon, ha permesso all’America di riconquistare l’accesso autonomo allo spazio, stimolando una corsa industriale accolta a piene mani da Blue Origin di Jeff Bezos, e rappresenta l’esempio più importante di sinergia tra apparati pubblici e privati in campo spaziale. Si può legittimamente criticare la natura autoreferenziale delle dichiarazioni dei miliardari sulla corsa allo spazio, ricordare che la loro presunta natura di visionari è legata in primo luogo al loro ruolo in una competizione tra Stati, ma risulta tutto sommato fallace quanto scritto da Paris Marx su Jacobin definendo le idee dei miliardari nello spazio come “stratagemmi di marketing” atti a coprire la pioggia di contributi statali che finanziano queste attività.
Del resto, come i settori tradizionali delle forze armate hanno portato dietro di essi una serie di accrescimenti delle opportunità di business per i privati in diversi ambiti (dai settori dell’indotto ai laboratori di ricerca privati), la crescita del valore strategico dello spazio crea dinamiche analoghe. Agli Stati si aggiungono naturalmente le ambizioni delle grandi multinazionali della tecnologia, che tra società attive nel mercato dei lanci, compagnie con l’obiettivo dello sfruttamento minerario degli asteroidi e progetti avveniristici per la comunicazione satellitare mirano a posizionarsi strategicamente in un settore che è destinato ad essere affollato e competitivo. Vero è quanto scritto da Marcello Spagnulo, ingegnere che vanta oltre trent’anni di esperienza nel settore aerospaziale ed è editorialista di Airpress, nel suo saggio Geopolitica dell’esplorazione spaziale. Spagnulo nota che nell’attuale corsa allo spazio i primi obiettivi, “da fascino onirico, ambiziosi, stimolanti” sono al servizio di un’impostazione “tecnopolitica, un connubio tra pragmatismo e Realpolitik che permea l’essenza stessa dell’esplorazione dello Spazio” e che porta dietro di sé precisi interessi di medio e lungo periodo. Così è per la corsa alle orbite e così sarà per la corsa alla Luna che gli Usa stanno rilanciando col programma Artemis. Come in cielo, così in terra: le dinamiche degli spazi extra-orbitali seguono precise logiche di potenza terrestri. A questo pianeta gli Stati sono, giocoforza, ancorati: e ogni proiezione esterna serve precise logiche di potenza per il dominio economico, strategico, militare e tecnologico delle dinamiche dell’era globale.