C’è una connessione sospetta tra la politica americana e le aziende della Silicon Valley, tra il governo e le società Big Tech. Pressioni attuate dalle agenzie governative nei confronti delle piattaforme social nel tentativo – sulla carta – di contrastare la “disinformazione“: un’operazione giudicata tuttavia dai repubblicani come una grave forma di censura e palese una violazione delle libertà di parola e di espressione garantite dalla Carta costituente.

Su questo tema si è espresso, nella giornata di martedì 4 luglio, il giudice distrettuale Terry Doughty della Louisiana, il quale ha messo un’ingiunzione che vieta ai funzionari della Casa Bianca e dell’esecutivo di incontrare i rappresentanti delle aziende Big Tech al fine di convincere questi ultimi a occuparsi della disinformazione social e di rimuovere così i post ritenuti “pericolosi” dall’amministrazione Usa: secondo il giudice Doughty l’amministrazione Biden tuttavia avrebbe oltrepassato il limite negli ultimi anni, citando “prove sostanziali” di una campagna di “censura di vasta portata”. Il giudice distrettuale ha inoltre sottolineato che “le prove prodotte finora descrivono uno scenario quasi distopico” da “Ministero della Verità” di George Orwell. I post “incriminati” riguarderebbero la gestione della pandemica e le notizie riguardanti il figlio del presidente Usa, Hunter Biden.

L’accusa contro l’amministrazione Biden

I repubblicani accusano l’amministrazione Biden di aver messo in atto una grave campagna di censura, orchestrata in aperta collusione con le Big Tech. Il senatore repubblicano Eric Schmitt, ex procuratore generale del Missouri, ha dichiarato su Twitter che la sentenza è “un’enorme vittoria per il Primo Emendamento e un colpo alla censura”. Le prove, ha aggiunto il procuratore generale della Louisiana, Jeff Landry, “sono scioccanti e offensive: alti funzionari federali hanno deciso di poter imporre ciò che gli americani possono o non possono dire su Facebook, Twitter, YouTube e altre piattaforme su Covid-19, elezioni, critiche al governo e altro ancora”, ha dichiarato Landry in un comunicato.

L’ingiunzione vieta a diverse agenzie governative, tra le quali il dipartimento della Salute e l’Fbi, di “discutere con le società di social media al fine di incoraggiare, fare pressione o indurre in qualsiasi modo la rimozione, la cancellazione, la soppressione o la riduzione di contenuti”. Ci sono, naturalmente, delle eccezioni: il giudice Doughty ha sottolineato che le agenzie potranno contattare le società Big Tech e le piattaforme social in caso di attività criminali e cospirazioni, nonché di eventuali “minacce alla sicurezza nazionale”.

L’opposizione della Casa Bianca

Nella giornata di lunedì 10 luglio l’amministrazione Biden ha presentato ricorso presso la corte d’appello federale al fine di bloccare temporaneamente l’ingiunzione del giudice Terry Doughty che limita i contatti dei funzionari dell’esecutivo con le società Big Tech. Secondo gli avvocati della Casa Bianca, la sentenza di Doughty è troppo “vaga” e può danneggiare l’operato dei funzionari dell’amministrazione Usa su questioni ritenute di vitale importanza. Inoltre, secondo i legali dell’amministrazione Usa, il giudice che ha emesso l’ingiunzione non presentando alcuna prova tangibile del fatto che l’amministrazione abbia minacciato le società di social media e costretto queste ultime a rimuovere i post incriminati. In precedenza, gli avvocati della Casa Bianca avevano presentato ricorso presso il giudice Doughty, nominato dall’ex presidente Donald Trump, che ha tuttavia respinto le richieste dei legali.

Gli imputati, ha sottolineato quest’ultimo, “sostengono che l’ingiunzione dovrebbe essere sospesa perché potrebbe interferire con la capacità del governo di continuare a lavorare con le società di social media per censurare il discorso politico sulla base di opinioni”. In altre parole, “il governo chiede la sospensione dell’ingiunzione in modo da poter continuare a violare il primo emendamento“. La vicenda ha generato un grande dibattito negli Usa, su tv e giornali, tra chi difende a spada tratta la libertà di parola e di espressione e chi, al contrario, ritiene che la “disinformazione” debba essere contenuta. Su cosa sia effettivamente “disinformazione” o no, tuttavia, in una società polarizzata come quella Usa, il quesito rimane apertissimo e oggetto di scontro politico destinato a durare a lungo.

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