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Una delle affermazioni che spesso, non senza elementi di verità e realismo, viene proposta da analisti e studiosi riguardo alla partnership russo-cinese è quella che vede nel legame tra Mosca e Pechino una convergenza politica dettata da circostanze piuttosto che l’embrione di un’alleanza a tutto campo. Tale analisi è legata alla presa d’atto dell’estemporaneità dei legami militari e strategici tra le due grandi potenze, dall’assenza di strutture di coordinamento comuni paragonabili alla rete di alleanze tessuta dagli Stati Uniti e della sostanziale diffidenza che divide due potenze rimaste per secoli atavici nemici. Queste considerazioni non mancano, come detto, di elementi di verità ma mancano di definire il punto cruciale della questione, ovvero che Russia e Cina non mirano a costruire strutture paragonabili alla Nato o a plasmare un’alleanza militare e strategica da formalizzare esplicitamente ma, piuttosto, a mettere a fattor comune la volontà di controbilanciare il peso degli Stati Uniti e della loro sfera d’influenza sugli affari internazionali sfruttando sia comprensibili convergenze tattiche che possibili scenari in cui il legame bilaterale può farsi più approfondito. E questo nella comune attestazione che gli elementi di discordia (pensiamo alla competizione in Asia Centrale o alla diversa considerazione dei legami con l’India, nemico esistenziale per la Cina e alleato sentimentale e politico per Mosca) non manchino, ma che pragmatismo e visione d’insieme possano contribuire a una cooperazione win-to-win.

La partnership strategico-militare

La partnership strategico-militare tra Cina e Russia si sta costruendo principalmente su quattro direttrici: l’interscambio bilaterale di sistemi d’arma, lo sviluppo comune di nuove tecnologie, l’avvio di esercitazioni congiunte, l’enfatizzazione del lato politico della cooperazione per aumentare il potere contrattuale di fronte a Washington.

Nel 2016 Mosca e Pechino hanno avviato contratti nel campo della cooperazione tecnico-militare per un valore complessivo di circa tre miliardi di dollari. Due anni dopo, il ministro della Difesa russo Sergei Shoygu ha dichiarato che il 12% delle esportazioni di armi russe è stato venduto alla Cina. Nell’agosto 2020 la collaborazione in tal senso potrebbe aver raggiunto un nuovo apogeo sulla scia della rivelazione delle prime indiscrezioni su un possibile sottomarino che Mosca e Pechino punterebbero a realizzare congiuntamente. La rivista Forbes ha definito “misterioso” il progetto, mentre gli analisti russi, consultati da un organo certamente non ostile al Cremlino come Sputnik, hanno parlato apertamente di “fiducia senza precedenti” tra i due Paesi.

La partnership tecnologica

La partnership tecnologica sta prendendo invece particolarmente piede sulla scia dello sviluppo del principale settore complementare tanto al comparto militare-industriale quanto al versante civile (e dual-use) legato all’alleanza infrastrutturale della “Nuova via della seta”: la corsa all’innovazione di frontiera. La Cina di Xi Jinping guida la corsa al 5G, all’Intelligenza artificiale ad uso industriale, al calcolo quantistico in duopolio con gli Usa. La Russia sta sviluppando forti capabilities in termini di cybersicurezza, sia sul fronte offensivo che su quello difensivo, e elabora strategie a tutto campo sull’Ia a fini militari, non a caso definita dal presidente Vladimir Putin punto dirimente per la determinazione dei futuri equilibri di forza planetari. Una sinergia sempre più completa tra Cina e Russia sulle tecnologie critiche comporterebbe la realizzazione di un vero e proprio incubo strategico per Washington, ovvero la formazione di un asse in grado di creare i nuovi standard delle telecomunicazioni, del flusso dati, del cloud, con i comprensibili dividendi in termini di hard power e intelligence.

In tal senso il Council on Foreign Relations statunitense ha sottolineato recentemente la profonda espansione dell’attività del colosso tecnologico cinese Huawei in Russia, come forma di proiezione della cooperazione bilaterale e delle prospettive strategiche di Pechino. Mosca spera che la crescente presenza di Huawei sul suo territorio in termini di influenza diretta (programmi di ricerca, sviluppo di centri di innovazione) e di legami commerciali (dai piani per il 5G nazionale all’acquisto di tecnologie russe) aiuti a forgiare una cooperazione paritaria con Pechino e un flusso di conoscenze e competenze tra i due Paesi. Non è da escludere che, come sottolineato dall’ex ad di Google Erik Schmidt, questa convergenza preluda a una biforcazione della rete internet globale tra un settore a guida Usa e uno a predominanza sino-russa: a fine dicembre 2019 Mosca ha testato le sue strategie per la “sovranità informatica“, in applicazione delle quali sono state effettuate diverse prove di disconnessione di RuNet, la rete nazionale, dall’internet globale. Secondo il governo, l’esito degli esperimenti è stato positivo e ha visto la partecipazione congiunta di agenzie governative, fornitori di servizi dell’internet locale, servizi segreti, e compagnie nazionali che lavorano nel virtuale e nelle telecomunicazioni.

Esercitazioni militari

Esercitazioni materiali e su larga scala avvengono da tempo, invece, per plasmare la capacità di reazione dei due eserciti su scala globale. Se Pechino può aiutare Mosca sul fronte tecnologico, la Russia può insegnare molto alla Cina in termini di preparazione alle guerre di oggi e domani. Come ha sottolineato Giorgio Cuscito su Limes “l’ultima volta che l’Esercito popolare di liberazione ha combattuto una guerra è stato negli anni Settanta contro il Vietnam. In linea con la riforma militare in corso, la Cina vuole colmare le sue lacune per essere pronta ai potenziali conflitti del futuro (a cominciare da quelli con gli Usa) e tutelare i suoi crescenti interessi lontano dai confini nazionali. Per queste ragioni, negli ultimi anni l’Epl ha intensificato la sua presenza in operazioni di peacekeeping e in esercitazioni in patria e all’estero”. Tra queste ultime rientrano quelle antiterrorismo realizzate nel contesto dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) in Russia e Asia Centrale e maxi-operazioni come Vostok, la grande esercitazione congiunta russo-cinese (estesa alla Mongolia) andata in scena in Siberia nel 2018, in cui sono stati mobilitati 300mila uomini e che ha rappresentato la più grande manovra bilaterale dalla fine della Guerra Fredda.

La citata Sco è una delle organizzazioni che maggiormente avvicinano Mosca e Pechino sul fronte della partnership politica in materia di difesa e sicurezza, per quanto pertinente a uno spazio geopolitico centrato sull’Asia centrale. Ma il significato politico della convergenza militare russo-cinese è diretto in primo luogo, in termini di deterrenza, a avvertire Washington dell’impossibilità per l’egemone a stelle e strisce di pensare a un proseguimento del doppio contenimento contro Russia e Cina senza provocare un rafforzamento del gioco di squadra tra i due giganti dell’Eurasia. Sempre più convergenti in termini geostrategici, comunemente interessati allo sviluppo di nuovi assi commerciali e infrastrutturali e, in prospettiva, attivi partner sul ramo militare. Non serve parlare di alleanza per segnalare che la cooperazione tra Mosca e Pechino è una realtà fattuale e operativa.

Il fattore Washington

L’elezione di Joe Biden ha cambiato il ruolo geopolitico degli Stati Uniti. Al contrario di quanto accaduto durante la presidenza Trump, adesso Washington è tornata sulla scena internazionale con una certa urgenza. Un’urgenza dettata dall’ascesa – non solo economica – della Cina e dalla Russia, sempre presente nei pensieri di Biden dai tempi della Guerra nel Donbass. Forse a causa di qualche interferenza sottotraccia, o forse per un’azione di disturbo non visibile, appare evidente come Mosca risulti particolarmente indigesta al nuovo inquilino della Casa Bianca, al punto da creare un incidente diplomatico con il governo russo etichettando, nel corso di un’intervista, Vladimir Putin come un “assassino”. Il ritorno di fiamma degli Stati Uniti ha rimescolato le carte in tavola, riabilitando, da una parte, vecchie alleanze messe in standby da Donald Trump, e dall’altra spingendo i rivali dell’America ad adottare inevitabili contromisure. I principali avversari degli Usa, non c’è neppure bisogno di pensarci troppo, si chiamano Russia e Cina, adesso costrette – volenti o nolenti – a stringere legami ancor più solidi. Se la Belt and Road Initiative (BRI) rappresenta un’interessante punto di contatto economico tra le due potenze, e il processo di dedollarizzazione una congruenza finanziaria, bisogna per forza di cose considerare anche l’aspetto militare, a sua volta unito a quello tecnologico.

Inutile girarci troppo attorno: sa Mosca e Pechino vogliono blindare il controllo delle rispettive sfere d’influenza geografiche e gli interessi connessi – al netto di un po’ di comprensibile diffidenza reciproca – sanno di doversi unire in un blocco unico. Soltanto in questo modo, infatti, le manovre degli Stati Uniti saranno silenziate da colpi di coda più o meno decisi. La Cina, va da sé, non ha alcuna intenzione di perdere tempo in sfiancanti operazioni militari contro Washington. Al di là dell’esito di un possibile testa a testa militare, a Pechino i leader del Partito Comunista Cinese preferiscono continuare a garantire la crescita economica del Paese e il miglioramento delle condizioni di vita dell’immensa popolazione cinese. Sia chiaro: il Dragone, nel caso in cui servisse ruggire, saprebbe farsi trovare pronto, anche se questa dovrebbe essere proprio l’extrema ratio. La Russia, invece, ha teoricamente meno da perdere rispetto al vicino cinese. Gli armamenti sono temibili, ma la sindrome del gigante dai piedi di argilla è pur sempre un limite notevole.

E gli Stati Uniti? La sensazione è che neppure Washington stia pensando a sortite frontali contro Cina e Russia. È tuttavia molto probabile che, da qui ai prossimi mesi, possano scoppiare focolai locali, i cosiddetti conflitti a bassa intensità. Gli scenari più caldi sono il citato Donbass, l’enorme regione post sovietica dell’Asia centrale, la penisola coreana e il Mar Cinese Meridionale. Indipendentemente dal modus operandi di Biden, Russia e Cina avrebbero comunque cooperato vista la loro naturale reciprocità economica. Last but not least, è importante anche analizzare il rapporto personale esistente tra Putin e Xi Jinping. I due leader si sono spesso definiti migliori amici e si sono più volte incontrati di persona. Nell’ottobre 2020, Putin ha dichiarato di immaginarsi un’alleanza militare con Pechino, aggiungendo inoltre che le sinergie militari dei due Paesi avevano già raggiunto un elevato livello di cooperazione. Dall’altra parte, i funzionari cinesi hanno risposto con frasi di circostanza (“non esistono limiti alla tradizionale amicizia tra Russia e Cina”). Diciamo che un concreto avvicinamento militare tra le due potenze è in grado di portare benefici a entrambi. Putin potrebbe “utilizzare” la prossimità con Xi per spaventare Biden e intimorire l’Unione europea, così da spingere l’Occidente a moderare le proprie politiche nei confronti della Federazione Russa. E un discorso simile può valere anche per il leader cinese.

Gli affari più importanti tra Mosca e Pechino

Nel 2017 Russia e Cina hanno firmato un piano triennale per una cooperazione bilaterale senza precedenti, con il coinvolgimento di armi strategiche, la condivisione di esperienze militari chiavi nonché della ricerca tecnologica. Mosca e Pechino hanno anche collaborato per creare sistemi di difesa aerea e antimissile, mentre il Cremlino sta pure vendendo i suoi ultimi hardware al governo cinese, tra cui aerei da caccia Su-35 e sistemi missilistici S-400. Ci sono poi da considerare le numerose esercitazioni congiunte, più o meno esplicite, estese a vari livelli. Emblematiche quelle che hanno coinvolto l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (SCO), l’organismo intergovernativo nato per favorire la cooperazione tra gli Stati membri (ovvero Cina, India, Russia, Pakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Kazakistan. Afganistan, Bielorussia, Iran e Mongolia sono osservatori mentre Azerbaigian, Cambogia, Nepal, Turchia, Sri Lanka ed Armenia rappresentano i partner di dialogo).

È doveroso, inoltre, sottolineare anche la cooperazione in campo tecnologico, la quale può sfociare tanto in ambito civile quanto in quello militare. La Russia, al momento, non è in grado di sviluppare un sistema 5G autoctono, e dunque è ben lieta di rivolgersi alla Cina. Che, al contrario, può vantare l’azienda più avanti di tutte le altre: Huawei. Il colosso di Shenzhen, non a caso, è stato plurisanzionato da Washington ed è inviso agli alleati americani. Nel lulgio del 2019 l’azienda cinese ha siglato un accordo con l’operatore russo Mts per sviluppare le reti 5G in Russia. L’intesa riguarderà lo sviluppo delle tecnologie 5G ma anche il lancio pilota dei network di quinta generazione nel 2019-2020. Allo stesso tempo, Huawei ha acquistato da Mosca la tecnologia per il riconoscimento facciale denominata Russia Vocord. Il valore della transazione sembrerebbe essersi attestato intorno ai 40-50 milioni di dollari. La società del Dragone possedeva già un algoritmo di riconoscimento facciale, ma questa mossa potrebbe spiegare meglio le ambizioni di Huawei, interessato alle telecamere ad alta definizione “intelligenti” sviluppati dalle società russe.

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